Magra come un grissino, con l’apparecchio ai denti e piatta come un asse da stiro: fino agli anni Ottanta ero stata la tipica ragazza che non si filava nessuno. Bruttina, e dunque invisibile. All’inizio degli anni Novanta, però, il mio corpo esplose di colpo: non divenni formosa ma – finalmente – fiorii. Se prima ero sempre stata timida e impacciata, ora cominciavo a prendere consapevolezza di me stessa, del mio corpo e di cosa potevo fare. Ma, come molte ragazze di vent’anni, non di cosa avrei voluto fare davvero. E così tentai una strada: quella della moda.
Su suggerimento della figlia (indossatrice) di un collega di mia madre, finii nelle (astutissime) mani di un’agenzia di fotomodelle di Torino, che (pagando) mi insegnò a sfilare, truccarmi e farmi un look, insieme ad altri illusi e illuse della mia età. Tutto mi insegnarono, tranne ciò che contava in quel mondo: avere personalità.
Allora non ne avevo, di personalità: avevo il corpo, avevo la faccia, ma personalità zero. Stavo ancora crescendo, ero un po’ timida e un po’ estroversa, non sapevo chi ero, vivevo nel mio mondo, ancora divisa tra l’infanzia e l’età adulta. Avevo iniziato un corso di grafica pubblicitaria, che lasciai dopo un paio di mesi per iscrivermi in fretta e furia all’università: storia dell’arte. Volevo fare l’insegnante. Volevo fare l’indossatrice. Volevo anche andare in Africa, un giorno. Ma non sapevo chi ero.
Cindy Crawford, Naomi Campbell, Claudia Schiffer, Carla Bruni, Linda Evangelista, Karen Mulder: queste erano le mie eroine di allora, conoscevo a memoria tutte le sfilate, i loro passi, gli sguardi, gli stilisti, tutto. Di tutte noi che sfilavamo, l’unica che avrebbe potuto diventare una top model era Marielle. Era una ragazza di Ivrea bellissima, bruna con un viso d’angelo, ma aveva un problema: era timidissima. L’agenzia non seppe valorizzarla, e portò lei e il suo book fotografico all’agenzia Elite di Milano senza appuntamento, senza prepararla. La sua carriera finì ancora prima di cominciare, divenne grassissima e diventammo amiche. Chissà che fine avrà fatto.
Feci alcune sfilate di moda a Torino e dintorni, la foto per la pubblicità di uno shampoo insieme a un ragazzo che stava studiando per diventare attore (e poi lo divenne, e pure famoso), e poi un’altra agenzia mi mandò a fare i casting tanto agognati: quelli per le sfilate milanesi. C’era solo un problema: io ero ancora senza personalità alcuna.
Mi mandarono a rifarmi il book fotografico da un fotografo di Brescia; lì conobbi il suo assistente Rennio Maifredi – oggi fotografo di moda affermato – col quale nacque una bella amicizia. E conobbi anche il fotomodello americano che stava facendo un servizio fotografico con lui per la rivista Harper’s Bazaar, col quale mi ritrovai sul treno per Milano nel pomeriggio, e con cui ci scappò un bacio appassionato. Arrivati a Milano Centrale, lui mi chiese di rimanere, io scappai via.
I casting milanesi si rivelarono un disastro: mi ritrovai a fare casting per Armani con una ragazza italiana altissima e sicurissima di sè, mentre io, alta solo 1.75, non avevo dalla mia ciò che in quel modo contava di più: la personalità, la sicurezza di me. Tra ragazze australiane, americane e dell’Europa dell’Est meravigliose, sicure di sè e pronte a tutto, mi resi conto che io non ero pronta a niente. Neanche di conoscere meglio il fotografo capo-casting di un’altra agenzia di moda milanese, che mi chiese di andare a casa sua a fare un servizio fotografico, e di tornare a Torino il giorno dopo. E poi, cos’avrei detto ai miei genitori?
Feci ancora qualche sfilata a Torino, e nel mentre conobbi un paio di personaggi dall’aria sinistra:
1. Un rappresentante di costumi da bagno di Torino, che aveva bisogno di una modella per indossarli per i negozianti: a parte il fatto che nessuna negoziante voleva mai che indossassi nulla perchè “tanto a lei sta bene tutto”, il signore insistette per giorni per portarmi fuori a cena, dicendo che lui conosceva Jovanotti, Iva Zanicchi e tanti altri personaggi famosi a Milano, e che mi avrebbe fatta diventare famosa. Vedendo che non demordeva, al suo terzo tentativo gli dissi che ero fidanzata e il mio fidanzato era gelosissimo. Risposta: “Ma tanto mica mi sembri una tipa fedele!”. Me ne andai.
2. Il boss di una nota trasmissione televisiva locale, il quale aveva fatto un casting per prendere una modella da mettere in TV. L’agenzia mandò me e una ragazza mora. Dopo aver parlato con questo grasso signore con parrucchino e cravatta di Topolino, la sua segretaria mi disse che lui preferiva la mora, ma che se fossi andata a cena con lui, sicuramente avrebbe cambiato idea. Fuori dell’edificio incontrai la ragazza mora: mi disse che la segretaria le aveva riferito che il boss preferiva la bionda, ovvero me, ma che se fosse andata a cena con lui, sicuramente avrebbe cambiato idea. Allibita, me ne andai. Vedendo che non lo chiamavo, la segretaria mi telefonò, proponendomi di andare a fare un casting per la pubblicità di un’agenzia matrimoniale. Mi presentai all’ora stabilita, e mi ritrovai in presenza di un ragazzo che mi mostrava un album con le foto del boss ritratto con svariate star televisive: “Ti consiglio di telefonargli stasera e di farti invitare a cena: lui può farti diventare qualcuno”. “Mi scusi, ma la pubblicità di questa agenzia matrimoniale?”, replicai. “Eh, parlate poi anche di quello”, rispose. Uscii e buttai il biglietto da visita nel cestino della spazzatura.
Fine della mia carriera da indossatrice.
Qualche anno dopo ero in discoteca a lavorare per pagarmi il biglietto aereo per fare volontariato in Kenya. Lì incontrai una ragazza che aveva fatto il corso con me per diventare fotomodella, qualche anno prima: lavorava in discoteca anche lei e negli anni divenimmo amiche per la pelle. Lavorava in una banca, e di lì a poco mollò tutto per inseguire un sogno: prese un’aspettativa e si trasferì in Messico a lavorare in un resort con un grande tour operator italiano. In quella banca non rientrò mai più, se non per consegnare la lettera di dimissioni.
Io, invece, coronai il mio sogno da ragazzina: andai un mese in Kenya a fare la volontaria in una missione, e in seguito lavorai per qualche anno nella cooperazione internazionale in Albania.
Non si può forzare la mano al destino. A fare la modella non ero io. Non era nel mio essere. E infatti, quando sfilavo, non ero mai pienamente felice nè a mio agio. Quando mi ritrovai in Kenya tra le bambine dell’orfanotrofio della missione, senza orpelli nè trucco, ero finalmente io. E infatti ho vissuto uno dei momenti più belli della mia vita.
"Non sono avventuriero per scelta, ma per destino"- Van Gogh @EliSundayAnneClick To TweetPowered By CoSchedule“Per ogni uomo sulla faccia della terra c’è un tesoro che lo aspetta. Noi, i cuori, solitamente parliamo poco di questi tesori, perché gli uomini ormai non vogliono più trovarli. Ne parliamo soltanto ai bambini. Poi lasciamo che la vita indirizzi ciascuno verso il proprio destino. Ma, purtroppo, soltanto pochi seguono il cammino tracciato per loro, il cammino della loro Leggenda Personale e della felicità”. (da L’Alchimista, Paulo Coelho).
Se volete capire cosa dovete fare, nella vita, per essere veramente felici, guardatevi indietro: cosa sognavate di fare, quando eravate piccoli? Io in prima media, a scuola, avevo guardato un documentario su una missione in Argentina e ricordo che il cuore aveva sobbalzato: “Da grande voglio fare la missionaria”.
Non è mai troppo tardi per diventare ciò che sognavamo da bambini: il mondo ha bisogno di persone felici e realizzate.