Si vede il mare da qui, da questo castello bianchissimo che Massimiliano d’Asburgo fece costruire per abitarci con la sua Carlotta. La leggenda narra che il principe si innamorò di questo luogo la mattina dopo una notte di tempesta che lo aveva costretto a fermarsi su quelle rive, in una casa di pescatori. Decise di costruirci una dimora che però non ebbe mai la fortuna di abitare perché fu fucilato in Messico nel 1867. Si dice che, dopo la sua morte, Carlotta impazzì e tornò in Belgio. Miramare ha una storia da romanzo, un po’ come Trieste laggiù, nel suo golfo verde. E’ da troppo tempo che voglio vedere questa città. Mi affascinano i luoghi che parlano all’anima, in un modo o nell’altro. E il ciclismo che è uno sport che con l’anima ci parla sempre, ha lo strano potere di condurmi sulle strade che ho sempre voluto percorrere.
Trieste è un po’ come vorrei essere. O forse è proprio come me. Sul confine, piena di cose da dire, da annusare, da ascoltare. Sono quasi le otto e la gente è ancora per le strade sotto il tramonto che allunga le ombre e lascia una scia d’oro sul mare. E’ la vigilia e ha il sapore di tutte le sere che aspettano qualcosa di bello: sono infinite e brevi allo stesso tempo. Suonano blues per strada e si sente profumo di wurstel e crauti, i bambini corrono schivando le gambe dei passanti con palloncini rosa in mano. L’aria del Giro d’Italia che sta arrivando si mischia a quella del mare. C’è quasi sempre vento qui: scompiglia i capelli, pulisce l’orizzonte e la notte dove tremano le luci della città.
Il giorno dopo è prevista pioggia ma la mattina il mare è azzurro e c’è il sole. E’ estate anche a Gemona dove il cielo è sgombro dalle nuvole e c’è l’atmosfera da ultimo giorno di scuola. Tutti ridono, le paure, le tensioni, il freddo e le sofferenze patite nei giorni scorsi, oggi bisogna tenerle lontane. Gli ultimi chilometri e poi si torna a casa, a riabbracciare quella quotidianità instabile come la bicicletta. A questa ultima partenza ci sono gli amici, i parenti, i fans più assidui. E’ un ritrovo di gente che si vuol bene. Perché il rapporto tra il tifoso e lo sportivo va al di là di quelli etichettati. Non è niente eppure è tutto. Un sostegno di silenzio e di grida, un affetto legato a doppio filo con la strada. Sporadico eppure intenso come se fosse quotidiano. E’ un ritrovarsi dopo questo viaggio percorso più o meno assieme per dirsi ancora arrivederci.
Sul marciapiede lungo la strada dei pullman c’è un gruppetto con le bandiere della Sardegna e una è tenuta con pazienza da un bambino. Aspetta Fabio Aru ma saluta tutti quelli che passano. E i ciclisti rispondono, si inteneriscono, sorridono. Un sorriso, un ciao sono linguaggi universali e si riscoprono qui, dove le persone parlano lingue diverse ma hanno qualcosa che li unisce in maniera indissolubile.
Ancor prima che partano siamo già sull’autostrada per tornare in città ad aspettarli. Bisogna arrivare presto, c’è il mondo in quella piazza, su quel rettilineo d’arrivo. La gente in maniche corte e occhiali da sole si accalca sulle transenne, si fa selfie con il rettilineo d’arrivo, prende i bambini sulle spalle per fargli vedere meglio quella macchina con le due bandierine arancioni che sta arrivando. E’ il primo giro di circuito, la prima passerella. Un rombo e poi gli occhi di tutti verso il cielo azzurro: sono le Frecce. Quell’azzurro si tinge dei nostri colori e la strada accoglie i corridori. Questi giri sono le ultime grida prima del silenzio, il tifo di tutti i pellegrini che si sono radunati qui. Qualcuno prova a uscire dal gruppo, a lanciarsi verso quel traguardo che è l’ultima possibilità dopo i giorni di tentativi ma quello sprint se lo prende Luka Mezgec, ragazzo sloveno di ventisei anni. La vittoria lì, così vicino alla sua terra, lo trova sorridente, lucido di sudore e senza fiato per quella volata sognata fin dalla vigilia. O forse fin dall’inizio, quando sapeva di arrivare a pochi chilometri da casa.
E’ un attimo. Giusto il tempo di qualche stretta di mano tra i corridori e quelli al di là delle transenne troppo alte, giusto il tempo di un saluto e comincia a piovere: grosse gocce sempre più fitte. Si aprono gli ombrelli che si rovesciano per il vento che si alza dal mare. Si rovesciano come le emozioni, come se la malinconia venisse giù assieme al nubifragio. Malinconia delle cose finite. Il cielo è diventato scuro sopra la festa che è finita e l’orizzonte è bianco, promette sereno ma non si sa quando. Si sente da lontano il frastuono del palco. Premiano la maglia rosa e continua a piovere. Nella grande piazza si formano piccoli laghi dove galleggiano i coriandoli. L’acqua si placa, la gente inciampa nei lunghi festoni dorati che hanno lanciato, alza i telefonini, le macchine fotografiche per poter catturare anche un solo istante di quello che succede su quel palco sempre troppo basso. Piove ancora e poi smette e poi riprende ancora. Fino a che le nuvole si arrendono ed esce il sole. Restano i colombiani a sventolare le loro bandiere mentre tutti sciamano verso le vie alla ricerca della macchina o di qualche cosa da mangiare.
Bisogna tornare. Qualcuno ha detto che si viaggia per poi tornare. Invece io credo che si viaggi perché qualcosa più forte di noi ci chiami. Il ciclismo è uno sport semplice: una strada, qualche amico, un panino, uno striscione. E la semplicità è l’essenza della bellezza, di quella bellezza che ti chiama da lontano, anche da chilometri.
Si vede il mare anche da qui, da queste curve mentre lasciamo Trieste alle spalle. Siamo naviganti in tempesta anche noi, come Massimiliano d’Asburgo che bussò alla porta dei pescatori già addormentati. Cerchiamo solo un mare sereno. O semplicemente un posto dove restare assieme alle persone alle quali vogliamo bene.