Un sogno tutto curdo vissuto a Suruc.
E’ una sera qualsiasi dell’inverno romano quando due studenti universitari si recano al Nuovo Cinema Palazzo, a Roma nello storico quartiere di San Lorenzo. Ci vanno per seguire un’ iniziativa culturale cui partecipa tra gli altri il fumettista Zerocalcare; sono interessati al Rojava, a Kobane e, in particolare, vogliono capire chi siano precisamente i curdi. L’evento si rivela una fabbrica di nozioni e retorica intorno a questo popolo che combatte per la libertà, ricordando a tratti le lotte di liberazione e resistenza occidentali; dalla rivoluzione francese alla resistenza di Stalingrado, passando per il tentativo anarchico spagnolo. La serata e un certo sentimento internazionalista che si respira nel Cinema finiscono per alimentare l’interesse dei due studiosi.
Il viaggio.
Ed è per questo motivo che dieci giorni dopo partiamo per la Turchia, destinazione Sanliurfa, l’aereo porto turco più vicino al confine siriano e a Suruc, cittadina turca che ospita i campi profughi dei rifugiati curdi provenienti da Kobane. Nella stessa città ha sede Amara, l’ente che si occupa del collegamento con tutte le attività legate alla resistenza curda in terra siriana. Amara, che appare come un semplice edificio, è in realtà il cuore ed il nodo
dell’azione civile internazionale: vi si incontrano cooperanti, aspiranti soldati, giornalisti e fotografi, nonché figure di spicco nella resistenza curda.
Immediatamente cominciamo le nostre indagini per tentare di capire chi siano i curdi e quale sia il loro concetto di identità. E immediatamente cominciano le sorprese, perché il concetto di identità maturato nella cultura europea fatica ad applicarsi alla realtà curda, sfaccettata e di primo acchito paradossale. Innanzitutto, intervistando i rifugiati siriani dei campi profughi si capisce come la loro idea di identità non sia collegata ad un’appartenenza “di popolo”. I curdi sono divisi da secoli tra Siria, Iraq, Turchia e Iran. Quando un curdo proveniente dal Rojava pensa alla sua identità non si riferisce semplicemente al suo gruppo etnico ma, più in generale, identifica se stesso con tutti i diversi gruppi etnici e religiosi che popolano l’area del Rojava: curdi, assiri, arabi musulmani, arabi cristiani, yazidi. La complessità di questo concetto identitario, così ricco e insolito per un area del mondo dilaniata dalla questione dell’appartenenza, ci spinge ad approfondire questo punto; cominciamo quindi a porre domande anche nella sede di Amara dove i nostri interlocutori aumentano il nostro stupore.
L’esperimento del Rojava è basato sulla totale parità: sia di genere che confessionale.
Ogni gruppo di persone che vive in Rojava, dovrà avere in futuro la libertà di comporre il proprio interesse e di presentare democraticamente le proprie istanze. Tale concetto così diverso da quello dell’unità di un solo popolo, tipico dello statalismo occidentale incentrato su un idea di popolo e nazione, riporta alla mente l’esperimento messo in atto dall’esercito zapatista nelle Chiapas. Il paragone però, come ci viene detto dal responsabile del Diplomatic Desk di Amara, Man, non è calzante. Secondo lui l’unico fatto storico assimilabile al Rojava è la resistenza repubblicana della Guerra Civile Spagnola. Ci dice che solo in quel caso l’occidente ha conosciuto la democrazia consociativa cui il Rojava sembra ambire, non guidata da un gruppo culturalmente egemone e basata sulla gestione consociata delle risorse economiche. Il tutto basato su esperimenti di “microdemocrazia diretta” da sperimentare cantone per cantone, quartiere per quartiere.
Il Rojava ci affascina, ma in quanto studiosi ne vediamo le contraddizioni. Questa democrazia diretta, che non prevede organi con un solo vertice, che non privilegia i gruppi maggioritari e si presenta come totalmente inclusiva è nei fatti costruita dalle milizie armate del YPG e del YPJ. Ovvero dalle milizie armate di un solo ente politico, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Lo stesso partito poi ha un unico leader che detta le linee politiche, vale a dire Abdullah Öcalan. Effettivamente, il fondatore del PKK per ora si presenta come “guida illuminata” ben lontano dagli estremismi degli esordi, predicando principi democratici radicali sopra tutto in relazione alla totale parità di genere, che costituisce un unicum nel panorama mediorientale. Nondimeno la presenza di una sola formazione politica che si distanzia nettamente dalle altre decine di partitucoli che si sono presentati alle prime elezioni del Rojava, mette a rischio i principi di una democrazia così estrema e sperimentale.
Photo Credit: Francesco Piccat
La penetrazione culturale del PKK è capillare: all’interno dei campi profughi l’attività principale svolta dalle donne è quella di cucire bandiere, stemmi e gagliardetti delle milizie di partito, negli stessi luoghi si compongono canzoni e inni intorno alla resistenza di Kobane, e in ogni campo profughi o villaggio dove hanno trovato riparo i profughi siriani viene insegnato il curdo da maestri scelti esclusivamente dal partito. Tale infiltrazione nelle attività quotidiane da parte del PKK stride con i principi di pluralismo politico e culturale a cui il Rojava e la sua popolazione dovrebbero essere improntati.
Un cammino tutto in salita.
Benché neonato il Rojava è già circondato da potenziali nemici: da Assad alla Tuchia di Erdoğan, passando ovviamente per lo Stato Islamico. Per poter avere qualche speranza di sopravvivere il Rojava dovrà mostrare solidità almeno sul fronte interno; tale obiettivo potrà essere raggiunto solo attenendosi a quei principi democratici che fanno del Rojava un caso straordinariamente unico.
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