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Da vicino nessuno è normale

Creato il 11 giugno 2010 da Lanterna
Da qualche tempo, mi sto documentando sulla dislessia. Ho infatti buoni motivi per ritenere che mio marito ne sia affetto in forma leggera e che anche altri membri della sua famiglia non ne siano immuni.
Quindi, da quando mi sono trovata tra le mani questo libro, ho cercato maggiori informazioni anche tramite il sito dell'AID.
In particolare, temo che la più predisposta sia Amelia, anche se alcuni suoi recenti exploit sembrerebbero contraddire la mia impressione. Infatti, anche in età prescolare è possibile ravvisare sintomi della dislessia, che si sovrappongono anche ai "problemi" rilevati dalle maestre: difficoltà di concentrazione, un linguaggio non ancora pienamente sviluppato (soprattutto nella comprensione della fonetica delle parole), scarsa memoria a breve termine, ecc.
Da un lato, sarei favorevole a sottoporre Amelia a test che portino a una diagnosi precoce, perché la dislessia, se opportunamente trattata, può essere un disagio minore. E perché un insegnante, sapendo che un bambino è dislessico, può calibrare i compiti sulla base delle sue possibilità e predisposizioni.
Dall'altro, mi dico che suo padre e molti suoi parenti si sono laureati prima e meglio di tanti "normali", hanno lavori molto più soddisfacenti di tanti "normali" e magari non hanno fatto molta più fatica dei "normali", semplicemente la loro fatica è stata diversa. E quindi mi chiedo se sia il caso di far etichettare una bambina come problematica solo per un lieve disturbo dell'apprendimento. Perché, non nascondiamoci dietro un dito: anche se la scuola si impegnasse per aiutare mia figlia a superare le difficoltà date dalla dislessia, temo moltissimo la reazione delle famiglie dei compagni nei confronti di una bambina con difficoltà dell'apprendimento.
Mi vengono in mente tutte le storie di bambini di cui veniva chiesto il trasferimento perché ritardavano il programma, per il solo fatto magari di essere stranieri. Non dimentichiamoci che i miei figli andranno a scuola in un paese dove andare a Pavia (15 km) viene ancora considerato un viaggio.
Il fatto è che a volte mi sembra che si tenda a patologizzare tutto, il che è un sintomo di omologazione estrema.
Per esempio, 30 anni fa un bambino con difficoltà di apprendimento veniva un po' incoraggiato, un po' spronato, in modo ruspante. Se proprio proprio non ce la faceva, lo si catalogava come uno "che non ci arrivava" e fine: sarebbe andato a fare l'idraulico o il muratore, guadagnando peraltro ben più di me. Ma il range entro il quale si era considerati "normali" era molto più ampio, verso l'alto e verso il basso.
Anche nei comportamenti si era molto più "tolleranti". Ricordo per esempio un bambino della mia classe: molto silenzioso, un po' chiuso, non proprio bello. Insomma, il classico bambino che la maestra ignorava/tollerava perché era tranquillo, ma di certo non era portato in palmo di mano. Ebbene, questo bambino disegnava benissimo: mentre noi arrancavamo dietro i nostri tratti infantili, lui già padroneggiava effetti di profondità e prospettiva.
Oggi forse verrebbe sospettato di avere problemi psicologici, si metterebbero sotto pressione i suoi genitori (mi pare di ricordare che non fosse di famiglia ricca e che spesso venisse a scuola con vestiti un po' consunti e strani), lo si etichetterebbe come un bambino problematico. Invece questo ragazzo (l'ho scoperto lavorando con un suo cugino, ricercatore universitario) lavora nella protezione civile, continua a interessarsi di grafica e arte, è più integrato di me nella realtà sociale pavese.
Oppure penso a quello che mio marito mi racconta di se stesso: io mi sarei preoccupata ad avere un figlio che a 16-18 anni era ossessionato dalle piante grasse e dalla ceramica, che non aveva una compagnia di amici con cui uscire, che non aveva non tanto una ragazza ma nemmeno una a cui andare dietro. Eppure quel ragazzo strano è diventato un uomo meraviglioso e uno splendido padre.
Insomma, non voglio banalizzare dicendo che ci inventiamo solo malattie inesistenti, tutt'altro: è bello e utile che si possano fare diagnosi precise, a cui abbinare terapie mirate.
Però forse, a volte, quando ci facciamo prendere dall'angoscia di avere un figlio "diverso", dovremmo fermarci un attimo e guardarci intorno e indietro. Pensare a come eravamo noi da piccoli, confrontare le nostre paure di oggi con i percorsi che ci stanno alle spalle, relativizzare.
Per esempio, un tema ricorrente nei post di momatwork è la tensione tra desiderio di crescere i figli a modo proprio e timore di estraniarli dal mondo dei propri compagni. Io questa tensione l'ho risolta pensando a com'ero io alle medie: mentre i miei compagni ascoltavano i Duran Duran e impazzivano per Madonna, io ascoltavo l'opera e leggevo biografie storiche. Per molto tempo non sono stata popolare, per molto tempo sono stata considerata strana, ma poi ho legato con persone che erano il mio opposto (tra cui il fan sfegatato di Madonna) e sono stata contenta di non essermi dovuta omologare per trovare degli amici. Dall'altro lato, il ragazzino più carino della classe in terza media mi chiamava tutti i giorni e stavamo al telefono per ore, ma poi in mezzo agli altri non aveva il coraggio di starmi vicino, figurarsi manifestarmi una simpatia particolare: oggi mi dispiace per lui, non per me.
Essere dislessici può essere un problema grosso come non far mistero di amare i libri, non essere omologati può essere un problema quanto esserlo troppo.
Sta a noi genitori trovare il nostro equilibrio, credo, e aiutare i nostri figli ad essere fieri di ciò che sono.

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