Iniziamo dalla fine. Dalla sera del 3 settembre 1982 quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso a Palermo in via Isidoro Carini. Usciva dalla prefettura a bordo di una A112 bianca, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, per andare a cenare in un ristorante di Mondello (la A112, marchio di fabbrica Innocenti, era – per chi non lo sapesse – una macchinetta utilitaria adatta a muoversi in città). La vettura era seguita da un’Alfetta guidata da Domenico Russo, agente della scorta. Alle 21.15 una motocicletta, guidata da un killer che aveva alle sue spalle il mafioso Pino Greco, affiancò l’auto di Russo e Greco lo uccise con un fucile Ak-47. Nello stesso momento una Bmw 518, guidata da Antonino Madonia e Calogero Ganci, raggiunse la A112 e i killer spararono contro il parabrezza con un AK-47. Subito dopo le due auto e la motocicletta servite per il delitto vennero portate in un luogo isolato e date alle fiamme. I sicari e i vertici della cupola mafiosa tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò sono stati condannati. Eppure, ancora oggi, dopo trent’anni, non tutto è chiaro. Nando Dalla Chiesa, figlio del generale, parla apertamente di “omicidio politico”. Anche Rita Dalla Chiesa ha la stessa idea del fratello. Ma ha anche espresso un desiderio: «Voglio venire e vivere a Palermo per continuare a stare nel luogo in cui trovo papà. È una città che amo molto. Ho parlato con la gente, con i ragazzi, e credo che ci sia un voglia reale di cambiamento». Tante cose sono già cambiate da quella sera del 3 settembre 1982.
Fu omicidio politico? Domanda destinata a restare senza una risposta certa. Però, c’è un’altra certezza: il generale Dalla Chiesa fu lasciato solo perché – come scrivono Indro Montanelli e Mario Cervi nel libro L’Italia degli anni di fango – il generale fu scelto per essere il condottiero della lotta e guerra al potere mafioso ma proprio a lui non furono dati i poteri per condurre l’azione dello Stato. Una versione dei fatti che ieri è stata confermata anche dallo stesso ex ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, che in un suo ricordo del generale Dalla Chiesa sul Corriere della Sera ha scritto che «la sua nomina fu inquadrata nell’ordinamento tuttora vigente che conferisce al prefetto il coordinamento delle forze di polizia». Forse, un po’ poco per quegli anni di piombo, ferro e fuoco che avevano visto delitti eccellenti come quello del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella e del deputato comunista Pio La Torre. Montanelli e Cervi, che nel loro libro svolgono il ruolo di cronachisti, dicono testualmente queste parole: «Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato posto a capo della Prefettura di Palermo con investiture verbali che ne facevano un successore, se non un emulo, del famoso Mori: ma erano parole». Insomma, è chiaro: nel mentre ci si affidava al generale Dalla Chiesa, che tanta prova del suo valore e della sua efficienza aveva mostrato nel contrastare con vittoria il terrorismo delle Brigate rosse, e lo si indicava come un “prefetto di ferro”, nei fatti invece il generale doveva muoversi con i poteri di un qualsiasi prefetto della Repubblica, ad esempio quello di Pavia. Ma c’era anche un’altra rilevante differenza, forse anche più importante e decisiva: «Mori aveva il pieno appoggio del potere politico, che nel suo caso era quello fascista. Al generale Dalla Chiesa i politici della Repubblica tributavano elogi incondizionati e incoraggiamenti calorosi: ma accompagnati da interessati e ipocriti richiami alla democraticità dello Stato e alla necessità di rispettarne i garantismi e le tutele individuali, richiami che erano in sé ineccepibili. Ma che diventavano, sul campo, limitazione e freni».
Era un militare tutto d’un pezzo. Ma intelligente. Era “figlio d’arte”: la sua era una famiglia di ufficiali dell’Arma e il padre ne fu vicecomandante. Nacque nel 1920 a Saluzzo, Piemonte, e fu prima ufficiale di fanteria e in tale ruolo fu colto in Montenegro l’8 settembre 1943. Coraggioso: non si arrese ai Tedeschi e con altri compagni formò una banda partigiana e riuscì a ritornare in Italia. Chiese il trasferimento nei carabinieri e fu mandato in Sicilia. A Corleone fu ucciso Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro. Dalla Chiesa ritenne d’aver individuato gli assassini ma la Corte d’Assise di Palermo li mandò assolti per insufficienza di prove. Da questo fatto si vuole che Leonardo Sciascia trasse ispirazione per il suo famoso Il giorno della civetta: nel capitano Bellodi si potrebbe vedere un Dalla Chiesa sotto le mentite spoglie del personaggio letterario. Andò via dalla Sicilia e approdò a Milano dove lavoro bene e nel 1966 ritornò a Palermo dove, questa volta, lavorò ancor meglio mandando in carcere un bel po’ di boss e capi, tra questi Geraldo Alberti e Frank Coppola.
Carlo Alberto Dalla Chiesa era uomo di carattere. I suoi metodi non piacevano a tutti, neanche nell’Arma. Ma quando c’era bisogno di Carlo Alberto Dalla Chiesa lo si trovava sempre pronto. Fu così quando lo Stato si trovò a fronteggiare drammaticamente il terrorismo rosso. Il contributo di Dalla Chiesa fu determinante e furono presi, proprio grazie a lui, Curcio, Franceschini e Mara Cagol. Però, quando nel carcere di Alessandria ci fu una rivolta e i rivoltosi avevano nelle loro mani quarantotto ostaggi e ne giustiziarono uno minacciando di continuare, Dalla Chiesa diede l’ordine di attaccare: rimasero uccisi in sette tra detenuti e ostaggi. La conseguenza fu: polemiche, critiche, interpellanze, inchieste. Ci furono errori? Non si può escluderlo. Ma chi accusava Dalla Chiesa di aver agito lo avrebbe accusato, in caso contrario, di non aver mosso un dito. L’Italia è fatta così, oggi come ieri. Fatto sta che a Dalla Chiesa fu chiesto di farsi da parte e fu collocato a disposizione. Quanto ci restò? Poco. Gli fu chiesto di rendere più sicuro il sistema carcerario. Lo fece. Nel 1978, stesso anno della morte di Aldo Moro, fu nominato generale di divisione e proprio pochi mesi dopo l’uccisione di Moro divenne coordinatore della lotta al terrorismo. In quello stesso anno gli morì per infarto la moglie Dora Fabbro, conosciuta fin dai tempi dell’università a Bari. Emanuela Setti Carraro era la sua seconda moglie: più giovane di lui di circa trent’anni, ragazza della famiglia milanese, il generale esitò non poco prima di chiederle di sposarlo. I suoi tre figli – Simona, Nando e Rita – erano ormai adulti e indipendenti. Ma si sposarono e il destino della giovane donna si legò per sempre a quella del suo sposo.
E siamo un’altra volta giunti al punto di partenza: maggio 1982, Palermo, Sicilia. Il generale, carico di allori e onori, ma anche sconfitte e delusioni, mise piede a Palermo lo stesso giorno in cui si celebrarono i funerali di Pio La Torre. Lo stile di vita che volle seguire fu una sua precisa scelta: non abitava a villa Wittaker, sede della Prefettura, ma in una palazzina liberty che era la sua casa privata. Si spostava senza auto blindata e senza scorta. Sottovalutò il suo nemico, non c’è dubbio. Ma con quella sua eccessiva libertà di movimento voleva, forse, dimostrare che il pericoloso mafioso era meno pericoloso e terribile di quanto si credesse. Non fu un prefetto onnipotente, semmai impotente. Il sistema che doveva comandare e far muovere – la macchina dello Stato – era troppo elefantiaco per obbedire agli ordini di un solo uomo e troppe erano le invidie, i conflitti di competenza, gli opportunismi che, anche al di là delle loro intenzioni, si frapponevano tra il suo volere e la realtà dei fatti. Con la “realtà dei fatti” il generale dovette fare subito i conti appena provò a vederci chiaro proprio nei conti bancari. Alcuni sindaci si opposero: Dalla Chiesa non poteva avere pieni poteri e non poteva fare tutto quanto volesse. Il fenomeno mafioso – si disse – è stato enfatizzato, facendolo diventare più grande di quanto non sia e la sua leggenda risulta una vera offesa per la gente siciliana. In fondo, anche qualche Arcivescovo di Palermo si era così espresso. Dunque? Il “prefetto di ferro” della Repubblica democratica era tale solo a parole. Nei fatti non aveva dalla sua il potere dello Stato di cui avrebbe voluto disporre. Il suo destino, dopo gli altri delitti eccellenti, era segnato.
Quando morì, furono versate lacrime di coccodrillo. Si fece a gara per appropriarsi del suo nome e della sua memoria: perfino chi, in Sicilia, protestò, alzo la voce a Roma, lo avversò e gli negò i poteri per l’azione negli interessi dello Stato, degli italiani e dei siciliani lo pianse con lacrime da caimano. La battaglia contro la mafia probabilmente era impossibile anche per uno come lui. Non è un’azione che si possa condurre in solitudine, ma solo confidando nella legittimazione politica e nella forza dello Stato. Non erano queste le condizioni nelle quali cercò di agire questo “prefetto anomalo”. Lui stesso sapeva di non poter eliminare la mafia, ma per provare ad arginarla non si tirò indietro, anche quando non diedero ciò che chiedeva. Fu eliminato lui. Prima della sua eliminazione si arrivò al punto da contestargli l’uso frequente e abituale di “confidenti”: un uso che sembrava deplorevole ai puristi del diritto. E qui si potrebbe aprire un altro capitolo di un’altra brutta storia italiana che ci porterebbe direttamente ai nostri giorni.
tratto da Liberalquotidiano.it del 4 settembre 2012