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Dalla morte alla vita: eutanasia e sofferenza affettiva

Creato il 15 agosto 2011 da Paopasc @questdecisione
Dalla morte alla vita: eutanasia e sofferenza affettivaIn generale trovo interessante e a volte condivisibile il pensiero di Vito Mancuso. In questo caso però, nel volume collettivo Che cosa vuol dire morire, il capitolo scritto da Mancuso si intitola Se si ha paura della morte, si ha paura della vita, e già dal titolo non mi convince.Perchè non mi convince? La paura della morte è, come dicono gli etologi, adattiva, perchè serve a restare vivi il più a lungo possibile. Questo finchè siamo brute bestie e non, dirà l'acuto osservatore, dopo aver ricevuto il ben dell'intelletto, che chiaramente ci mostra che c'è vita dopo la morte. Ma c'è vita dopo la morte? Per ora non affronto il problema.Rilevo solo le implicazioni dell'affermazione: ci vedo, cioè, l'implicito riferimento al fatto che è naturale che vi sia una vita anche dopo la morte e che, di conseguenza, non bisogna averne paura. Noto però che, finora e a mia conoscenza, nessuno è mai tornato a dirlo, che c'è vita dopo la morte e che dunque l'affermazione si basa, molto probabilmente, su un forte desiderio, comune questo a credenti e non, e cioè che i propri cari defunti continuino, in qualche modo, a vivere. Per certo, in un modo lo fanno, nel nostro ricordo, ma questo può essere insufficiente. Quello che mi premeva sottolineare era l'aspetto intimidatorio e aggressivo insito in quel titolo: la paura della morte è una delle più forti in natura e non la si può relegare a colpa, come verrebbe da pensare.Anche se poi, leggendo le prime battute, viene un po' ridimensionato il tratto da implicazione logica presente nel titolo. Ogni vita organizzata, dice, è intrinsecamente mortale.Da cui deriva che
Averne paura è naturale, umano, giusto nel senso di giustificabile. Una morte serena, però, è possibile. E' la capacità di far prevalere, anche in quell'istante terribile dell'addio, la forma più alta di vita a cui possiamo aspirare: la vita spirituale, libera e cosciente.[1]
Dalla morte alla vita: eutanasia e sofferenza affettivaDevo dire che ho leggermente mutato il mio atteggiamento verso le implicazioni di quello che si chiama testamento biologico o accanimento terapeutico. Vale sempre, per me, la decisione del malato, espressa sia sotto forma di testamento scritto che come desiderio espresso verbalmente. Vale la sua volontà, senza dubbio. Però ho leggermente riconsiderato le implicazioni che la decisione di morire comporta, soprattutto nei confronti di coloro che restano. E' noto che la tragedia affettiva della morte ricade completamente su chi resta. Per quanto in molte situazioni la speranza di miglioramento sia presso che nulla è verificabile, almeno per un certo tratto, come nonostante tutto continui ad agire. Si spera, nonostante tutte le evidenze dicano il contrario. In più, questa speranza comporta che vi sia ancora una differenza per chi resta, seppure non macroscopica, tra lo stato vegetativo e la morte del proprio caro.Da questi argomenti, e  sempre che la permanenza in stato comatoso o vegetativo non comporti una sofferenza per il malato, ritengo non sia ininfluente la presa in considerazione dell'effetto dell'eutanasia su chi resta, per lo meno da parte del malato quando gli è ancora possibile farlo.Il tema è piuttosto delicato, quindi cercherò di spiegarmi meglio. Ognuno di noi rappresenta qualcosa, dal punto di vista affettivo, per qualcuno. Questa proprietà affettiva che ci viene regalata dagli altri è l'eredità sulla quale vengono edificati i comportamenti compassionevoli futuri: si acconsente ad interrompere l'accanimento terapeutico per evitare continue sofferenze oppure si acconsente, per lo stesso motivo, all'esecuzione del testamento biologico. Dico si acconsente moralmente perchè, per il resto, quello che si può o non si può fare è regolato, restrittivamente, dalla legge. Parlo di consenso morale: chi di noi vorrebbe che il proprio caro continuasse a soffrire, anche se il far cessare le sofferenze fosse possibile solo con l'eutanasia?In questo caso vi è, da parte di chi acconsente, una rinuncia affettiva pari a quella di chi rinuncia alla vita, fatta appunto per evitare ulteriori sofferenze. Si sceglie di soffrire personalmente dal punto di vista affettivo pur di non far soffrire il proprio caro dal punto di vista fisico.Ma non si è sempre nella situazione descritta sopra. In molti casi di stato vegetativo o coma irreversibile, il soggetto non soffre affatto. Che fare, allora? Come si comporterebbe, ognuno di noi, in quei casi in cui viene meno quell'urgenza compassionevole legata alla sofferenza del malato ed invece è ben presente la sofferenza per chi resta, in cui spesso vi è una notevole differenza affettiva tra stato vegetativo e morte?Non è un problema risolvibile unicamente dall'autorità della legge ma va gestito dai protagonisti, accompagnati quanto più possibile dallo Stato. Alle volte, si regala un po' di speranza a chi resta se si consente a rimanere in stato vegetativo: è una lotta a chi spetta essere preso maggiormente in considerazione, se il malato, incosciente e non sofferente o chi resta, cosciente e sofferente. Mancuso è su questa linea quando dichiara
E' vita quella di un uomo in stato vegetativo persistente? Certo che è vita.
Dalla morte alla vita: eutanasia e sofferenza affettivaSu questo, come ripeto, finisco per dare ragione a chi è contrario all'eutanasia, modificando leggermente il mio punto di vista. Come detto, la vita è un impegno, spesso nei confronti di chi ci vuole bene, dei nostri cari. Questo impegno comporta che noi facciamo il possibile per essere presenti. Nei frangenti estremi, quando l'impossibilità di salvezza e la caduta di ogni speranza farebbero vedere nella rinuncia alle ultime cure il tratto più compassionevole possibile, io vi metto un forse. La dignità che verrebbe meno, del malato in stato vegetativo che perdurasse in questo suo stato, non è un argomento appropriato: che assenza di dignità ci sarebbe nell'essere in stato vegetativo, accudito dai tuoi cari, e per loro ancora significativo dal punto di vista affettivo? Ripeto la mia posizione: nel testamento biologico va innanzitutto considerata l'assenza di sofferenza del malato, condizione indispensabile per procedere nell'analisi. Infatti, la presenza di queste due condizioni, assenza di cure possibili e presenza di dolore, sarebbero le due condizioni elettive per l'esecuzione della volontà della morte dolce. In assenza di una delle due di queste condizioni (il dolore), il testamento dovrebbe prevedere un confronto tra il soggetto e i familiari, chiaramente se possibile, o una clausola che preveda la scelta finale lasciata a coloro che restano, con il soggetto dà o nega la sua disponibilità. In questo caso, come si può notare, si scontrano due egoismi: uno è quello del soggetto malato, che considererebbe non dignitosa una vita del genere (ma penso solo a livello personale perchè non so chi si sognerebbe di definire qualcuno in quello stato non dignitoso) e l'altro quello di coloro che restano. Dei due, però, è agevole osservare che è l'egoismo di coloro che restano a causare maggiori sofferenze e dunque, in questo caso, quello che dovrebbe essere dirimente. Non vi è una regola ferrea, vi è la considerazione di più fattori. Qualche volta, la scomparsa dei nostri cari  è più accettabile quando lo stato vegetativo che la precede dura da un po' di tempo, perchè accompagna ed estingue (in parte) il dolore della perdita. E per questo forse dico che l'egoismo di chi non soffre, cioè il malato terminale, e sempre ammesso che non provi nessuna sofferenza, deve cedere un po' a coloro che invece soffrono. Senza che vi sia obbligo di comportarsi in un modo o nell'altro, sarebbe auspicabile che vi fosse la possibilità di scegliere, lasciando la decisione al circolo  affettivo del malato, però senza imposizioni ideologiche o di politically correctness, visto e considerato che quello della morte è forse uno dei momenti irreversibili per antonomasia e va rispettato in maniera assoluta.

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