di Giovanni Inzerillo
Apparso in Italia nel 2001, contemporaneamente all’anno di pubblicazione americana, La trapunta di marmo raccoglie nove racconti sul “delicato tema delle relazioni umane”, come citato nella quarta di copertina. Sono storie contestualmente assai differenti tra di loro, ambientate in diverse aree geografiche e periodi storici.
Dall’America passando per l’Italia Leavitt compone e interpone, come fossero differenti strisce di tessuto unite a formare una “trapunta”, vicende equivoche e paradossali. Ma proprio come fatto da Tom, protagonista morto del racconto che dà il titolo all’intera raccolta, la composizione dei pezzi (e delle storie più in generale) si effettua secondo una geometria “precisa”:
« In questa vita, Tom insegnava inglese, e scriveva qualche articolo di viaggio, e dedicava gran parte del suo tempo a esplorare alcuni degli angoli più arcani della storia di Roma; di qui la sua fascinazione per i pavimenti delle chiese, nei quali i pezzi di marmo tagliati a mano – esagoni e triangoli, cerchi, diamanti e lacrime a goccia – erano disposti secondo una geometria precisa. […] «Come i riquadri di una trapunta – mi disse una volta – solo che invece che di stoffa, la trapunta è fatta di marmo. Una trapunta di marmo»».
Questa “geometria” che ordina tra loro le vicende umane è realizzata non soltanto a mezzo della perfezione della scrittura, a cui Leavitt ci ha abituato in tutti i suoi romanzi, ma tramite uno status quo che si ripropone, invariato, in tutte le storie. I racconti, infatti, hanno sempre due protagonisti opposti che, in modi diversi, sono vittime o artefici di equivoci e malintesi. Una sorta di “procurato fraintendimento” che subito richiama a molte delle storie di Brancati in cui i personaggi, in misura più o meno cosciente, alterano i “dati della realtà”.
Nel racconto Attraversando il San Gottardo, ad esempio, dietro l’illusorio presagio di un imminente disastro ferroviario, Harold, giovane studioso della classicità e cultore della bellezza, fantastica sul “volgare” cugino Stephen:
« E adesso Harold dovette posarsi il libro in grembo. Dovette proprio farlo. Aveva ventidue anni, era pelle e ossa, e di costituzione “delicata”, come diceva il suo medico, ma quando chiudeva gli occhi, lui e Stephen indossavano la toga ed erano una accanto all’altro in una piazza inondata dalla luce della ragione. Oppure Harold era un grande guerriero, e Stephen il suo adorato eremenos che lui tempestava di baci, sul corpo zuppo di sangue, alla fine di una battaglia. Oppure si stavano allenando, nudi, nel ginnasio. Pensieri vergognosi! Doveva scacciarli dalla mente! Doveva trovare un oggetto più degno della sua adorazione di quel ragazzo stupido e volgare, quel ragazzo che, con tutta la sua facile bellezza, non avrebbe fatto colpo su nessuno ai tempi di Socrate. »
Pregevole è il racconto La scena del contagio dove si intrecciano due vicende cronologicamente distanti: quella di Bosie, soprannome di Lord Alfred Douglas, storico amante di Oscar Wilde e quella contemporanea di Cristopher e Anthony. Le due storie, concettualmente legate dal tema del contagio di una malattia, sono dallo stesso scrittore motivate dalla lettura di un articolo sui giovani americani e il contagio da Aids e di una biografia di Bosie:
« Pensai a questo articolo per mesi dopo averlo letto. Poi lessi una biografia di Bosie, e presente e passato crearono la loro alchimia. Dalle fiamme uscirono Anthony e Cristopher, nudi, quasi completamente formati ».
Bosie e Cristopher, nel comune ruolo di aspiranti contagiati, sono così accostati per la loro apparente autodistruttiva dissolutezza e la loro innata indole a salvaguardarsi integri.
Nel racconto La scatola nera ancora più evidenti ricorrono i motivi di personaggi opposti e dei loro fraintendimenti. La vicenda del vedovo Bob e del bugiardo Ezra assetato di soldi e fama ruota attorno a una videocassetta – qui strategicamente assunta come prototipo della scatola nera di un aereo precipitato. Bob osserva così il filmato con gli occhi della mente disordinata e confusa. La consapevolezza dell’illusione, esattamente negli stessi termini del celebre racconto Trampolini di Brancati, non si traduce in una presa di coscienza della realtà ma nel suo perseverato mascheramento. Così, come Trampolini spezza in due i suoi occhiali, Bob spezza la videocassetta:
« Tolse la cassetta dal videoregistratore; la tenne in mano per un istante; poi con le dita e con i polsi, la spezzò in due. Con quanta delicatezza la plastica si srotolò, il nastro grigiazzurro si sparse sul pavimento! Senza il suo prezioso contenuto non era niente, solo l’ennesima scatola nera persa in acque percorse da alghe, a una profondità dove nessuna voce umana sarebbe mai riuscita a penetrare.»
Come in La scena del contagio, anche nell’ultimo racconto, il già citato La trapunta di marmo, si interpongono vicende e tempi diversi. Le storie di Vincent e Tom, un tempo amanti e conviventi in una New York moderna, tornano a rivivere, dopo la morte di Tom, grazie alla descrizione fatta da Vincent durante il suo interrogatorio romano. Il marmo a cui Tom era appassionato, nella sua veste di ladro collezionista, si estende così a metafora della vita (è il marmo del tavolo di un ristorante romano) e della morte (è il marmo della lapide). I pezzi che compongono la “trapunta” sono i luoghi, i tempi, e le storie di personaggi in antitesi ma incastrati in maniera complementare. Proprio Vincent che nella sua relazione con Tom aveva sperimentato “fino in fondo il sollievo vertiginoso del bugiardo” potrebbe anche lui essere un omicida inconsapevole, poiché “nella menzogna spesso si cela una bugia: che lo facciamo per proteggere gli altri”.
D’altronde, è proprio questa “trapunta tirata sugli occhi” a generare un consapevole fraintendimento della realtà da cui è impossibile distaccarsi. Significativo in tal senso, a conclusione dell’opera, è “lo sguardo sul pavimento” rivolto verso il basso e l’“illusione” da esso generata:
« Me ne vado. Non so se il seminarista mi sta guardando, se sta sollevando un ostensorio o un obelisco per sbattermelo in testa. Ho gli occhi fissi sul pavimento, invece. Queste fiorettature di colore alla Escher creano davvero una stranissima illusione di profondità…eppure se ci cadeste dentro, vi rompereste il naso. Non riuscireste a sollevarla, una volta che vi foste lasciati deporre sul tavolo da lui, e la trapunta di marmo vi fosse stata tirata sugli occhi.»
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Nato nel 1961 a Pittsburgh David Leavitt è, ad oggi, uno dei maggiori e apprezzati scrittori contemporanei. Formatosi in un ambiente colto e figlio di un professore universitario Leavitt, laureatosi nel 1983 in Composizione creativa presso la prestigiosa Università di Yale, ha proseguito la carriera accademica del padre e attualmente insegna Letteratura creativa presso l’Università della Florida. L’esordio letterario avvenne nel 1984, a soli 23 anni, con i racconti di Ballo di famiglia con cui Leavitt riscosse un immediato successo. Di poco successivo, del 1986, è il romanzo La lingua perduta delle gru ritenuto, insieme a Mentre l’Inghilterra dorme (1993) e il recente Il matematico indiano (2007), uno dei suoi capolavori. Tra gli altri romanzi si ricordano: Uguali amori (1989), Il voltapagine (1998), Martin Bauman (2000), Il corpo di Jonah Boyd (2004). Interessante è il saggio La nuova generazione perduta (1998) che raccoglie articoli e conferenze sulle nuove generazioni di giovani e di scrittori e sul delicato tema dell’Aids. Sin da subito Leavitt si è imposto all’attenzione di pubblico e di critica non soltanto per le sue spiccate abilità di scrittura ma anche per la sua dichiarata omosessualità assunta a tema costante di pressoché tutti i suoi scritti (la sua attività e la sua produzione ricorda assai da vicino il nostro Walter Siti) e che lo stesso scrittore così motivava: “Ho scritto quello che avrei voluto leggere quando ero adolescente, ma che nessun libro raccontava… Al primo posto si pone soprattutto l’esperienza e meno l’ideologia. Di etichette non ne abbiamo mai una sola: io, per esempio, sono gay, sono ebreo, sono americano. Fino ad oggi l’essere gay è stato al primo posto, perché era molto forte l’aspetto rivendicativo che oggi è diventato meno importante. Io non ho mai avuto problemi ad essere uno scrittore gay, ma secondo me questa definizione comincia ad essere un po’ anacronistica, è un po’ di un’altra epoca. E questo, ripeto, per me è un bene”.