Se al mio arrivo a Dhaka qualcuno mi avesse detto: “Fra 2 settimane non vedrai l’ora di tornare qua”, l’avrei preso per folle.
Andiamo con ordine. Dopo la prima settimana nel quartier generale a Dhaka, lo stage prevede un’escursione di 5 giorni in un villaggio per osservare le mansioni svolte day by day da parte del “branch office”. A detta di altri stagisti che avevano già fatto la stessa esperienza, la settimana in villaggio è il momento saliente dell’esperienza in Bangladesh e le mie aspettative erano molto alte. Per questi 5 giorni veniamo suddivisi in vari gruppetti da 3. Io sono con Louis, un ragazzo kazako che di cognome fa Albertini, ma vive negli USA e Asif, 28 anni portati malissimo, bengalese. Ricapitolando: io, Borat e il rosaio a cui comprerete gli occhiali fluorescenti la notte di Ferragosto. Gruppo abbastanza composito, quanto meno a prima vista.
Arriviamo a Munshirhat dopo 7 ore di viaggio. Ad attenderci ci sono riso e dal, zuppa di piselli/fagioli, che mangeremo ininterrottamente, pranzo e cena, fino all’ultimo giorno. L’elettricità va e viene, anzi non va proprio, e se per la luce non è un problema, l’assenza di un ventilatore si fa sentire non tanto per i 40 °C, ma per l’umidità che raggiunge facilmente l’80%. La prima sera, in uno dei rari momenti di “luce”, individuiamo senza troppa fatica un ragno, grande una spanna, sopra le nostre teste: il traduttore che è con noi però non è preoccupato e dice di non spaventarsi perché questi ragni sono “friendly”. Nonostante si sudi anche solo a giocare a carte, per la prima sera decido di non fare la doccia, aspettando di farla in un momento di buio, nel quale non mi rendo conto del colore dell’acqua con cui mi lavo, presumibilmente giallognolo. Prima di andare a letto sistemo accuratamente la zanzariera di cui sono dotati i nostri “letti” sperando di risvegliarmi il mattino seguente senza una tarantola sul cuscino.
I seguenti tre giorni passano molto lentamente: le attività sono sempre le stesse e la calma orientale spesso si tramuta in inefficienza. A mezzogiorno abbiamo già finito e arrivare a sera è dura, specialmente nelle suddette condizioni. La magra consolazione è quella di vedere la luce in fondo al tunnel e poter pensare che per me è una prigione forzata, mentre c’è gente per cui queste sono le condizioni ordinarie.
Per tornare a Dhaka, ennesima odissea. Le strade non hanno regole e spesso rischi il frontale con altri camion e non c’è da stupirsi se sei letteralmente bloccato a causa di qualche incidente. Ad un certo punto, vediamo per la strada persone che infuocano un camion, reo di aver investito, e ucciso, un motociclista. Una volta arrivati a Dhaka, l’attesa è di altre 2 ore prima di arrivare in hotel. Ieri, era anche il primo giorno di Ramadan e le strade erano intasate da fedeli che andavano a pregare e dalla gente in strada per le ultime abbuffate prima del digiuno dei prossimi giorni.
Il “village trip” era partito con troppe aspettative, molte delle quali disattese, ma guardo al bicchiere mezzo pieno e sono sicuro che quando ripenserò a quest’esperienza lo farò con un sorriso.
G.