Normalmente, a causa dei riequilibratori automatici, deficit e disoccupazione presentano un andamento molto simile. Ma dalla seconda metà del 2010 in Europa è successo qualcosa di totalmente differente.
di Andrea Terzi* per Keynes blog
Su lavoce.info, Francesco Daveri si interroga sulla causa dei debiti pubblici in Europa partendo da un’intervista del Corriere della Sera a Stefano Fassina.
Il vice ministro dell’Economia afferma che l’austerità “ha fatto salire i debiti pubblici in Europa dal 60 al 90 per cento del Pil”. Ora, com’è noto (e facilmente verificabile), il rapporto debito/Pil dell’area euro ha iniziato a salire nel 2008 con la crescita dei disavanzi innescati dalla Grande Recessione. Com’è ugualmente noto, la politica europea cosiddetta “dell’austerità” è stata avviata, su monito tedesco, a seguito della crisi del debito greco e del primo salvataggio orchestrato da BCE, Commissione europea e Fondo Monetario Internazionale ai primi di maggio del 2010. Il vice ministro, dunque, ha prestato poca attenzione ai tempi e su questo punto si sbaglia.
Osservazioni simili ha svolto Daveri, il quale non si limita a correggere l’inesattezza dell’affermazione con riferimento ai dati Eurostat ed offre una sua lettura della relazione tra aumento del debito e austerità riassumibile in due punti:
1) Il debito pubblico in Europa è salito a seguito di politiche keynesiane “legittime ma costose”.
2) L’austerità ha frenato l’aumento del debito, ma ha anche prodotto effetti sorprendentemente negativi (“di entità superiore alle attese dei più”) sul Pil.
In altre parole, non prendiamocela troppo con l’austerità: erano le politiche di salvataggio a non essere sostenibili.
Ora, io credo che in questo ragionamento (come in quello di Fassina) manchi un parametro fondamentale, la cui importanza si può ben cogliere nella Figura 1.
C’è un prima e c’è un dopo austerità.
Prima dell’austerità, l’Europa era già orfana della politica fiscale: i singoli paesi si erano impegnati a rispettare i vincoli dell’unione monetaria senza che si fosse prima provveduto a creare un meccanismo centrale e condiviso di stabilizzazione fiscale. In caso di recessione, rimaneva operativo solamente il ben noto “meccanismo automatico” descritto dai manuali di macroeconomia: la caduta dei redditi riduce gli introiti fiscali attenuando l’impatto della recessione su famiglie e imprese e arrestando il moltiplicatore negativo del reddito. Nella Figura 1, la corrispondenza tra disavanzo pubblico e disoccupazione prima dell’austerità è inequivocabile. E chi pensasse che si tratti di una coincidenza accidentale può valutare nella Figura 2 la stessa relazione negli Stati Uniti dal 1948 ad oggi. In entrambi i casi, il disavanzo pubblico (sempre in ragione del “meccanismo automatico” di aggiustamento fiscale) è ampiamente scandito dall’andamento ciclico dell’economia.
Con la crisi del 2008, dunque, si ripete negli Stati Uniti come in Europa un ciclo già visto, sebbene questa volta più pronunciato: calo repentino dei redditi, calo di consumi e investimenti e calo degli introiti fiscali che contribuisce ad alleviare le conseguenze della recessione e interrompere la spirale recessiva. Così è accaduto in America. E così in Europa. Fino al 2010.
A partire dal 2010, e soltanto in Europa, accade qualcosa di diverso. Nel mezzo di questo monumentale aggiustamento (già non indolore), parte la battaglia (persa in partenza) dell’austerità. Nel momento in cui più occorre alleviare gli effetti della crisi su famiglie e imprese, le tasse aumentano e si taglia un po’ di spesa pubblica. È sacrosanto l’obiettivo di migliorare la qualità della spesa pubblica, e lo è altrettanto il recupero dell’evasione, ma per evitare di creare disoccupazione questi due obiettivi andrebbero perseguiti sempre a parità di spesa pubblica netta e quindi con una simultanea riduzione di tasse e balzelli su lavoro e imprese e delle aliquote su chi le tasse le paga regolarmente.
La Figura 1 mostra come, a partire dal 2010, l’austerità abbia invertito la relazione tra disoccupazione e disavanzo pubblico. Il disavanzo scende, sì, ma non perché l’economia migliora. Scende a seguito dei provvedimenti che deliberatamente sottraggono reddito, risparmio e ricchezza a famiglie e imprese. Il risultato, ampiamente prevedibile, è quello ormai sotto gli occhi di tutti.
In buona sostanza, non è esatto asserire, come fa il vice ministro del governo Letta, che la crescita del rapporto debito/Pil è interamente ascrivibile all’austerità. Ed è altrettanto inesatto affermare, come fa Daveri, che il rigore è stata la risposta “inevitabile ma poco riuscita“ alla crisi.
È vero piuttosto che l’austerità ha bloccato l’aggiustamento indotto dai riequilibratori automatici attivati dalle finanze pubbliche, tipico delle fasi recessive, e che ci avrebbe già portato fuori da questo pantano in cui l’Europa resta pericolosamente invischiata con gravi minacce alla sostenibilità sociale (come peraltro continua ad ammonirci Mario Draghi).
Nell’incontro di giugno, è auspicabile che i leader europei di buona volontà vogliano invertire le priorità e mettere all’ordine del giorno la fine dell’austerità. Il disavanzo pubblico europeo è troppo basso per tornare a crescere.
*Docente di Economia, Franklin College Switzerland e Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
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