E’ l’ultimo chilometro di tanti percorsi nel deserto. La tappa più lunga, solo ventotto gradi, rispetto ai trenta dei giorni scorsi. Le montagne emergono dalla terra arida e sono come lei: brulle, rocciose, color della sabbia. E’ l’ultimo chilometro su quella strada dove sventolano le bandiere degli Emirati e i vestiti degli sceicchi con gli occhiali scuri. Sono ancora tutti lì anche se la velocità aumenta metro dopo metro. Comincia l’ultima rampa e John Degenkolb ha ancora due uomini che lo proteggono. Una curva, pochi secondi. E’ il momento. Chissà cosa succede quando, prima del traguardo, capisci che bisogna andare, che bisogna dare tutto, consumare le forze e sacrificarle all’istante perfetto. Forse non succede niente. Forse sono le gambe a comandare. Niente altro conta più. Se ci sono ce la fai, altrimenti zero. Lui esce dal gruppo e spinge sui pedali, così forte che quella forza quasi si può sentire anche davanti a uno schermo, in una mattina innevata. La bicicletta va da una parte e dall’altra come in una volata. Anche se quell’arrivo non è in rettilineo. Scava la montagna, scava la fatica. Una curva, la bocca aperta e la disperazione di voler arrivare. Un’altra curva e il corpo piegato sulla bicicletta che quasi spinge con le reni per raggiungere la linea bianca. Poi è il nulla, come sempre. Si butta a terra mentre gli altri passano ancora, qualcuno cerca di slacciargli il casco e lui vuole fare tutto da solo. Cerca l’aria, non ne ha più nei polmoni. Sembra una volata, anche se non lo è stata.
John Degenkolb ha qualcosa, forse il sorriso, di James Franco. E le gambe, i muscoli, da guerriero. Niente attore, lui voleva fare il poliziotto. Invece è un ciclista, compagno di merende e di allenamenti di Marcel Kittel. Due velocisti così simili e così diversi. E’ difficile inquadrare John, è difficile dargli un etichetta che lo definisca completamente. E d’altronde a me queste cose non son mai piaciute. Nel ciclismo capita che gli obiettivi cambino in base ai sogni: la testa decide, le gambe provano a starle dietro. E’ successo con Wiggins: dalla pista al Tour è stato un attimo. E’ successo con altri e con altri succederà. E’ un velocista, Dege, come lo chiamano i compagni e soprattutto i fans, ma è capace di azioni ibride e potenti, di finali adrenalinici da strano, potente, finisseur. Perché resiste. Ecco il guerriero. Ecco la forza.
L’anno scorso si è preso tre tappe al Tour Méditerranéen, la Gand Wevelgem e quattro tappe alla Vuelta. Che è ancora poco per la gente che si aspetta che esploda da un momento all’altro. Specialmente alla prima classica di stagione. La Milano-Sanremo. Sanremo bella e a volte maledetta. Perché basta poco, basta il vento che vien giù dal Turchino a spennellare di grigio tutto, a far infuriare il mare, a gelare le ossa. Basta poco per questa primavera dal carattere sempre più capriccioso, sempre più incerto. L’ultima volta c’era il cielo minaccioso e davvero troppa sfortuna ad attenderlo: forò ai nove chilometri, mentre il gruppetto di testa stava affrontando il Poggio. Lì non c’è perdono per nessuno. Se rimani indietro è finita. Non ci fu neanche per lui che era partito con tutto il sostegno della squadra e dei sostenitori. E’ qualche anno che gli scommettitori insistono su Degenkolb. La Sanremo è la sua corsa, sembra fatta apposta per lui. Perché è una corsa ibrida, strana, spesso bastarda. E’ una di quelle per velocisti che son capaci di stringere i denti e aggrapparsi al gruppo quando la strada sale. Serve la congiunzione perfetta, a volte. Serve che tutto vada bene perché il ciclismo non è uno sport dove basta essere pronti. Lui lo è, forse dall’inizio. Stagione dopo stagione se ne sono accorti anche gli altri.
Cerca l’aria, Dege. Cerca la fortuna che gli spetta. Sbattendo la bici di qua e di là sul suo primo traguardo della stagione, vuole dire che lui è pronto più che mai, che il Poggio è più vicino di quanto si pensi. Che il solito destino gli deve un’altra opportunità. Cerca la sua nuova occasione con la prepotenza di un ragazzo che sa di avere ragione. Cerca l’aria anche dopo il traguardo, dopo quello sforzo immane. E’ così, ci si svuota di tutto, si ritorna all’asfalto: madre di tutto quell’andare. Quando si rialza, abbraccia sorridendo Alejandro Valverde, re dei finali all’improvviso. Lo abbraccia e sorride. Questa volta ha davvero fregato tutti. Persino lui.