31 mag 2011 @ 17:42
Varie (oltre il tè)
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«Occulta è anche la sua stanza da letto, così adorabilmente contadina e come seminata di un aroma capace di conservare il frumento che si vede fremere nel paesaggio, in lontananza, dietro la finestra che lo nasconderebbe.»
A. Artaud, in Van Gogh il suicidato della società
Vincent Van Gogh, La stanza di Van Gogh ad Arles. 1889, Parigi, Musée d’Orsay
(è la terza e ultima versione di questo soggetto, la più piccina tra tutte, che Van Gogh dipinse per inviarla in regalo a madre e sorella)
Davanti a questo quadro, che le potevo sentire, le spighe di frumento frusciare oltre i vetri appena accostati; e poi le curve bianche del Mart * e il suo pezzetto di cielo ingabbiato, il cous cous mangiato a piedi nudi sotto un albero di Rovereto, la vigna il bosco e i monti del Trentino intorno, all’imbrunire, a serrarmi un po’ il respiro; e cornacchie e rondoni e tazze tiepide di Tie Guan Yin, fino a che non fa notte; succo di ribes e ciliegie appena colte per colazione, certi sentierini nascosti tra le foglie, e due arazzi di Depero da non potergli più staccar gli occhi di dosso, risucchianti come caleidoscopi.
Quel dedalo di meraviglie che è il complesso di Santa Giulia * a Brescia: i mosaici pavimentali come enormi mandala, e la Vittoria Alata *, che c’eravamo solo io e lei nella penombra, e come al solito nel trovarmi da sola di fronte ad un’opera d’arte mi sale un’emozione fortissima, e ancor di più nel caso delle sculture, perché mi aspetto sempre che da un momento all’altro voltino il viso e prendano vita, come in un racconto di Savinio (anche l’aria era la stessa, densa come una gelatina, di un caldo cremoso, brulicante), per dirmi cose inaudite, per smettere la loro posa secolare, per raccontarmi la pena di un’eternità tra quattro mura, dell’essere senza più significato; e i rilievi longobardi, ed elmi e spade rubate a tombe di antichi guerrieri, che ogni volta penso a come sarebbe più bello immaginarle ancora sotto terra, a com’è fastidioso questo bisogno dell’uomo di svelare ogni mistero, e a tutti quei guerrieri che ovunque siano ora sono senza elmi e senza spade, e trovo in tutto questo una prepotenza imperdonabile dei vivi nei confronti dei morti.
Vincenzo il custode palermitano del Castello *, che mi ha “intercettata” nel buio delle stalle antiche, a testa in su, mentre fotografavo questo:
e «Con tutte le cose belle che ci sono, proprio quello fotografi?» (ci aveva mica tutti i torti, eh ;-)), e che poi mi ha fatto da cicerone per un’ora purché gli parlassi in fiorentino, e alla fine mi avrebbe rinchiusa nelle prigioni («Ma non quelle alte, eh, quelle giù basse, nei sotterranei, che ci mettevano i peggiori di tutti: lì ti metterei, a te!»). «E quei fiori?», chiedo, sulla Torre dei francesi; «Due ragazzi che si sono buttati», e il pensiero per un attimo stringe, si volta alla mia trascorsa Grande Disperazione: poi chiudo gli occhi e mi sembra un miracolo il vento e il sole, esserci per potermeli sentire addosso, ancora, pur senza un preciso perché. Sempre così mi succede, a ripensarci. Ed è bello e orribile, e bello e bello e orribile.
Le incisioni su linoleum di Matisse *, quel buon vizio del togliere, del distillare, che mi ammansisce i pensieri; e d’altra parte l’esser grata sempre che prima di diventar pittore abbia studiato da disegnatore di tessuti d’arredo, così che ogni suo quadro d’interni diventi ai miei occhi gioiosissimo inno alla ricchezza sconclusionata della vita, che si arruffa si volta scansa e ritorna per poi smettere d’un tratto, come un ghirigoro; le gouaches découpées dal libro “Jazz” riunite in un’unica sala, come un sorriso grandissimo ritagliato nel colore; e poi le ultime grandi tele, col cielo e il mare della Polinesia, pesci e uccelli in un’unica, pacifica dimensione.
Henri Matisse, incisioni su linoleum (fonte)
Henri Matisse, Pianista e giocatori di dama. 1924, olio su tela. Washington, National Gallery of Art (dal sito della mostra)
Henri Matisse, Il destino. Tav. 16 del libro “Jazz” (Parigi, 1947). Musée Matisse di Le Cateau-Cambrésis (dal sito della mostra)
Henri Matisse, Oceania, mare. Musée Matisse di Le Cateau-Cambrésis (fonte)
«Miriamo alla serenità attraverso la semplificazione delle idee.»
Henri Matisse
E poi Verona un po’ di fretta, di vento e d’acquazzone (credo grazie alle mie imploranti e ripetute danze della pioggia, dopo cinque giorni a 35°), con Chagall * che m’innamora sempre, incondizionatamente, mi straccia qualcosa dentro ma piano, con dolcezza, tanto che sorrido anche mentre mi punge, ricordandomi quel pezzo di me che si è staccato come coda di lucertola, ma non ricresce; e gli scorci scarpiani nel museo di Castelvecchio * a purificarmi gli occhi, e l’Adige e il Ponte scaligero spiati tra i merli del castello, in cima, che io MAI mi spiegherò l’ottusità del Turista che si infila a suon di spintoni davanti a quel triste balconcino posticcio – l’han messo lì nel Novecento, eh – e diserta luoghi come Castelvecchio, appunto, in cui eravamo in tre (perciò se venerdì scorso avete scorto una fanciulla dai capelli cortissimi che passando nei pressi della cosiddetta “casa di Giulietta” * sbuffava scura in volto improperi tipo “Pecoroni! Nient’altro che pecoroni!”, ecco, ero modestamente io: vecchia zitellina prematuramente inacidita che non sono altro ;-)).
E’ stato un bel vagabondare, sì.
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Quanto al tè, non so voi ma io son già nel pieno pienissimo del mio periodo “a freddo”; e visto che ultimamente siete in diversi a chiedermi delucidazioni in merito, nel prossimo post ne approfitteremo per parlare un po’ dei vari metodi di preparazione.
Nel frattempo, avete letto che Bella estate è in arrivo da Acilia? Tutti teini perfetti per essere messi al fresco! Come questo suo Hanai, con cui vi saluto: una miscela di tè bianco Bai Mu Dan, ciliegia e boccioli di rosa, preparata stamattina usando 10 grammi di foglie per 1 litro d’acqua, in infusione per 1 ora e mezzo a temperatura ambiente.
Deliziosamente profumato di amarena, lascia in bocca una delicata freschezza di rosa; accompagnato da qualche ciliegia croccante tocca vette di vermiglia perfezione ;-)