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Di ritorno da Firenze. Riflessioni di un turista sul turismo.

Creato il 14 agosto 2013 da Nicola_pedrazzi @Nicola_Pedrazzi
      Alla fine l'ho fatto davvero: sono andato a Firenze a visitare gli Uffizi. È uno strano mondo, il nostro. Che magari vai due anni di fila in Thailandia, ma non sei mai stato a Pompei. Finalmente ho vinto la pigrizia e l'ho fatto: due ore di macchina (una di parcheggio, per evitare le strisce blu #maledettoRenzi), e se prenoti telefonicamente salti la fila. Che ci vuole? 11 euro.           Se ho atteso 27 anni (di cui 25 vissuti a poco più di 100 Km dal museo celeberrimo) certamente non sono un appassionato d'area. L'unica occasione in cui mi sono dedicato all'arte visiva risale al mio primo ed ultimo esame di Storia dell'Arte: Settembre 2008. La Professoressa Ottani Cavina fece un corso splendido, uno dei pochi corsi universitari che abbia fatto all'Università. L'esame consisteva nell'identificazione delle opere studiate a lezione all'interno di un arco temporale di tre secoli (dal '400 al '700). Le proiettavano sul muro 10 minuti l'una: oltre all'autore, al titolo e alla data, bisognava scrivere anche la collocazione. E pensa un po'... se lasciavi più di una scheda su dieci in bianco venivi bocciato. Che matti!
[Piccola proposta di riforma universitaria: tornare a bocciare chi non sa un cazzo?]
      Insomma, per chi, come me, aveva speso i precedenti 8 anni di corsi di storia dell'arte a sparare pallini insalivati con le bic quell'esame fu una specie di incubo: mi accorsi allora della mia diseducazione all'arte visiva, al suo lessico, alla cultura simbolica necessaria per fruirla, una disabitudine rimasta tale. Ricordo che, privo di questa sensibilità, fu un autentico delirio ricordare tutte quelle immagini: quelle madonne, quelle pale d'altare mi parevano tutte uguali, perché distanti anni luce da me, e di conseguenza assolutamente non interessanti. Per non parlare delle collocazioni e degli assurdi cognomi dei committenti: perché impararli? Una noia, sì, mi annoiai di brutto; ma, anche allora lo intuivo, non si sarebbe trattato di uno sforzo di memoria inutile.
[Piccola riflessione sulla memoria: non si fanno più esercizi di memoria, a scuola. La mia maestra di italiano delle elementari ci provò. Ma erano gli anni Novanta: eravamo nell'era della distrazione televisiva,  e gli smartphones non erano ancora giunti a restituirci il piacere del sapere sulla punta delle dita. La maestra Miria (così si chiamava, la mitica) dovette chinare il capo di fronte all'inclemenza dei tempi. Peccato. Imparare a memoria non è certo la più alta delle operazioni intellettuali... ma soprattutto nel corso dell'infanzia sarebbe fondamentale. Tanto un bambino la testa ce l'ha vuota: conviene farlo assorbire, fossero anche solo suoni, che poi per riflettere sul significato e sulle connessioni avrà tutta la vita. Poesie, storie... L'epica greca ha viaggiato secoli di bocca in bocca. Purtroppo, oggi, il sapere nozionistico è visto dalla didattica ufficiale (quell'insieme di corsi e di tecniche istituzionali che avrebbero avuto il compito di formarci) come un'anticaglia: roba da Pinocchio, da libro Cuore, da maestre bacchettone bacchettanti che non fanno riflettere il loro alunno. In realtà non sarebbe male tornare ad esercitare uno straccio di memoria visiva e uditiva.... Ma sto divagando, tipo nonno partigiano il 25 aprile: chiusa la quadra].
      Dicevamo: Uffizi. Sono andato là, forte (cioè debole) di qualche reminiscenza universitaria - in verità, con mio stupore, ho riconosciuto diverse opere che non sapevo di ricordare: dal Tondo Doni di Michelangelo alla Madonna con il Collo Lungo del Parmigianino... per non parlare della Venere  di un certo Botticelli... La mente, che macchina eccezionale! - e con tanta voglia di toccare con mano il Rinascimento, quella cosa tanto speciale cominciata proprio qui da noi sette secoli fa, un momento unico, le cui reliquie vengono a vederle anche dal Giappone, un periodo specialissimo che fa recuperare l'orgoglio nazionale persino a Giorgio Gaber:
Mi scusi Presidente ma forse noi italiani per gli altri siamo solo spaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo son fiero e me ne vanto gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento
      Dicevamo: il Rinascimento. Ma che cos'è esattamente, questo periodo famosissimo? Il dizionario dice più o meno quello che sappiamo tutti, il minimo sindacale per prendere almeno 6 all'interrogazione di riparazione di fine anno. Da Treccani.it:
      Periodo di storia della civiltà che ebbe inizio in Italia con caratteristiche già abbastanza precise intorno alla metà del XIV sec. e affermatosi nel secolo successivo, caratterizzato da una fruizione consapevolmente filologica dei classici greci e latini, dal rifiorire delle lettere e delle arti, della scienza e in genere della cultura e della vita civile e da una concezione filosofica ed etica più immanente. Destinato a estendersi successivamente e a differenziarsi nei diversi campi della cultura e dell’arte, ma con vaste risonanze in ogni settore della vita e dell’attività dell’uomo, il moto rinascimentale oltrepassò presto i confini dell’Italia per diffondersi negli altri paesi europei. I suoi limiti cronologici possono fissarsi con buona approssimazione tra la metà circa del Trecento e la fine del Cinquecento.
      Quello che il dizionario non esplicita è che il Rinascimento, prima ancora di essere una realtà storica, è, da sempre, a volte negli intenti dei suoi stessi interpreti, un MITO. Secondo Peter Burke, un mito è «un racconto simbolico i cui protagonisti sono personaggi che hanno caratteri più ampi, o più netti, rispetto alla vita reale; un racconto con una morale, ed in particolare un racconto sul passato che è svolto al fine di spiegare o giustificare una determinata situazione presente». In effetti, dalla metà del XIV secolo in poi, un numero crescente di studiosi, di scrittori e di artisti cominciò ad utilizzare l'immagine del rinnovamento per esprimere la coscienza di un'età nuova. Giorgio Vasari (1511-1574), il quale scrisse le Vite degli artisti che lo precedettero (la fonte numero uno per gli studiosi del Rinascimento), lo fece con quest'idea in testa, componendo una biografia della rinascita in tre atti: Giotto - Leonardo - Michelangelo. Una storia/mito tipo tartarughe ninja alla riscossa. Tuttavia, ci ricorda Burke: «Come tutti gli autoritratti, anche quello degli intellettuali e artisti del Rinascimento era al tempo stesso rivelatore e fuorviante». Studiosi successivi come Jakob Burckhardt - che nel 1860 pubblica La civiltà del Rinascimento in Italia - baseranno la loro analisi sul mito propugnato dagli stessi autori del Rinascimento: una sorta di momento magico-miracoloso che vide il recupero degli antichi e la (ri)nascita dell'individuo e della modernità. Per uno storico si tratta di un errore di prospettiva madornale: qualsiasi autoritratto o autobiografia è infatti una fonte preziosa, ma nella misura in cui ci parla di come l'autore vuole apparire, non di quello che l'autore è. In altre parole, la Storia intesa come disciplina è il contrario dell'autobiografia. Proprio per questo suo intento autocelebrativo, a differenza di altri periodi storici riconosciuti (come ad esempio il Medioevo) il Rinascimento è difficile da analizzare, perché non è scevro dall'interpretazione autopercettiva fornita ai posteri dai suoi interpreti. Burke lo spiega ben meglio di me:
      Ci fu realmente un Rinascimento? Se descrivessimo il Rinascimento in termini di porpora e oro, come un miracolo culturale isolato o come l'emergere improvviso della modernità, la mia risposta sarebbe «no». Architetti rinascimentali produssero capolavori, ma lo stesso fecero capomastri gotici. L'Italia del XVI secolo ebbe il suo Raffaello, ma il Giappone del XVIII secolo ebbe il suo Hokusai. Machiavelli fu un pensatore acuto ed originale, ma tale fu anche lo storico Ibn Khaldun che visse in Africa settentrionale nel XIV secolo. Se tuttavia il termine è usato, senza pregiudizi nei confronti delle realizzazioni dell'epoca medievale, o di quelle del mondo extraeuropeo, per far riferimento ad un particolare complesso di mutamenti nella cultura occidentale, allora esso può essere inteso come un concetto organizzatore che ha ancora la sua validità.
      Splendido, no? Chiarissimo e difficilmente eccepibile. Torniamo alla mia giornata da turista. Con le immagine sparse dell'esame incubo e questa lezioncina in testa [Il Rinascimento di Peter Burke, volumetto utilissimo per non essere dei gialloni totali in materia, è edito in italiano da Il Mulino, prezzo di copertina 11 euro] mi sono recato nella capitale STORICA e a questo punto anche MITOLOGICA del Rinascimento: Firenze. Quello che vi ho trovato è l'oggetto di questo sbrodolatissimo post - per chi fosse arrivato sin qui: tenete duro, sto per arrivare al punto.
      Non so cosa sia stata la Firenze del '300 per Dante e Giotto, quella del '400 per Brunelleschi, quella del '500 per Michelangelo. E ignoro come la Firenze rinascimentale sia stata vista e vissuta nei secoli successivi, dai romantici o dai futuristi... Ma so come ho visto Firenze io, nell'Agosto del 2013. Firenze è, oggi, la capitale TURISTICA del Rinascimento.
      L'industria turistica, in tutto il mondo, si nutre di miti. Prende l'idea stereotipata che il turista ha del posto per cui ha prenotato il biglietto aereo e la materializza in un'impressione, ancor meglio in un gadget, che possa essere riportato in patria a conferma dello stereotipo di partenza - una conferma che viene solitamente esibita come un trofeo a chi, per diversi motivi, in ferie non ci è andato, al solo sadico fine di suscitarne l'invidia: "Sapessi che bistecche, in Texas...", dice l'amico nomade all'amico sedentario, porgendogli una maglietta originale made in Taiwan della Route 66, con l'aria di chi ha visto il mondo. Questo schema vale per le renne peluche e i maglioni a lana spessa con i cristalli di neve sopra della Norvegia, così come per le magliette Bunga Bunga che ho visto due estati fa in Salento. Poco cambia se il Texas diventa l'Irlanda e la maglietta diventa un boccale. Quello che il turista fa, crucco o italiota che sia (nel caso dei turisti sì, esiste, uno stato mondiale - inteso come stato mentale) è riportarsi a casa il compiacimento per quello che già sapeva prima di partire. Stupirsi si, va benissimo: il sentimento della meraviglia è il benvenuto nella psiche del turista, possibilmente davanti ad un duomo gotico. Magari sì, anche un pizzico di commozione non sarebbe male - solitamente per quei pezzi d'arte talmente famosi che in realtà li avevamo già visti mille volte..."Certo che però è piccola sta Gioconda!" - ma che nessuno si azzardi a scardinare l'idea preconcetta che ho del posto che visito, che se no, puff, mi trasformo in viaggiatore, e torno a casa con dubbi, storie, pieno di roba incomprensibile. E mi tocca pure studiare per capirci qualcosa, e, quel che è peggio, potrei addirittura correre il rischio di dover fare tutto un lavoro su me stesso, al termine del quale magari sono pure costretto a cambiare opinione. Metamorfosi mostruosa, quella da turista a viaggiatore. Che qualche agenzia turistica ci protegga da questa sventura! Beh, da queste grigie pagine mi sento di poter tranquillizzare la comunità di turisti internazionali che vive nel mito del Rinascimento italiano: se andate a Firenze, state sereni, godrete a pieno il vostro stereotipo rinascimentale. Nessun dubbio vi disturberà la visita agli Uffizi, nemmeno se noleggiate l'audioguida. Nemmeno se ne noleggiate due che è un affare (6 euro una, 10 euro due).
      Sarcasmo a parte, il turismo sta al viaggio come la conferma al dubbio. Zero viaggio, zero incontro, zero avvenimenti interiori ed esteriori, zero cultura. Questo è il turismo. E lo dico senza alcun disprezzo per i turisti, non solo perché io stesso appartengo spesso e volentieri alla categoria (soprattutto quando vado "al mare"), ma perché le persone hanno il diritto di muoversi, di riposare e di muoversi per riposare scegliendo il modo che preferiscono, senza che nessuno vada a sindacare sulle loro azioni. Il mio disprezzo non va nemmeno all'industria turistica (lo confesso, mento, forse un po' la disprezzo): perché se esiste un mercato (e nelle società "avanzate" il mercato dello svago esiste), è legittimo che qualcuno se lo prenda per camparci sopra. Quelli con cui molto fumosamente «ce l'ho su» sono, in ordine casuale, i genitori, le sovrintendenze, i consigli comunali, i musei, le università e l'intero sistema d'istruzione nazionale, i media, gli architetti, e in generale tutta quella serie di operatori culturali pubblici e privati, formali e informali che dovrebbero porsi il problema di tutelare l'individuo dalla banalità e dalla stereotipia. Non dico risolverlo: porselo.
      Nel 2012 i visitatori degli Uffizi sono stati 1,7 milioni. Ovviamente, l'obiettivo non è di avere quasi 2 milioni di esperti in materia dopo la visita. Ma il fine che dovrebbe porsi qualsiasi istituzione culturale (da un padre a un museo) che abbia a cuore la propria funzione nella società è quello rendere fruibile all'interessato il patrimonio che si detiene, lasciando spazio a suoi eventuali percorsi personali e tutelandolo da interpretazioni univoche e sensazionalistiche. Quelle interpretazioni fuorvianti verranno fornite, a legittimo scopo di lucro, al di fuori dei musei, delle scuole, delle famiglie. Ripeto: al di fuori. Non vorrei che il mio accostare la famiglia a un museo sembrasse nascondere una visione pedagogica della cultura e, peggio ancora, della vita. Tutt'altro. L'unica analogia che colgo in queste istituzioni umane è il fatto di essere luoghi di memoria aggregante per gli esseri umani che le partecipano. La storia di mio nonno no ha sponsor che ne modificano la narrazione. In altre parole, penso che dovremmo tenere le spietate logiche di mercato al di fuori dei luoghi di memoria storica, al di fuori della fruizione dell'arte. Si consuma tanta facile retorica sulla libertà della rete, dell'informazione, sull'acqua pubblica... e non capiamo che gli Uffizi sono esattamente questo: luogo di rete e fonte di acqua della nostra società. Un museo non è un archivio, non ci devono andare solo gli studiosi. Ma renderlo un'industria non significa renderlo più aperto, significa semplicemente concepire i visitatori come consumatori, ed è con questa logica che il Rinascimento turistico-mitologico diviene più importante del Rinascimento storico, perché i primi due ovviamente vendono, il terzo no. Siccome un museo non è un parcheggio, sarebbe interessante immaginare logiche altre per mandarli avanti - che non siano, è ovvio, finanziamenti pubblici che non possiamo più permetterci. 
      Come si possa fare, nella pratica, a concepire visite multilivello, a rendere i musei posti più seri e dunque più allegri, depositi di potenziale culturale diversamente sfruttabile e non moltiplicatori di impressioni a tappeto, e il tutto mantenendo un bilancio in attivo, questo non lo so. Nel caso degli Uffizi forse in alta stagione sarebbe opportuno il numero chiuso su prenotazione, magari alzando il prezzo dell'ingresso e facendo promozioni per la bassa stagione; sicuramente bisogna buttare quelle audioguide (un'autentica presa per il culo fatta solo per gonfiare il prezzo del biglietto) e vedere di pensare a dei pannelli all'ingresso di ogni sala tematica - per una collezione come questa, che si sviluppa in ordine cronologico, avrebbe parecchio senso. Mi chiedo poi perché non sia possibile assemblare una squadra di guide umane (a proposito di posti di lavoro e di economia... quanti dottorandi specializzati e appassionati non aspetterebbero altro? Si veda Casa Leopardi, dove ti guidano ragazzi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani... da brivido!), invece di lasciare questo privilegio ad agenzie esterne che assoldano guide (scarse) quadruplicando il prezzo del biglietto. In ogni caso lo ammetto: non ho idea di come si dovrebbe fare nella pratica, soprattutto: non ho assolutamente idea del piano economico a supporto di questa riconversione culturale. Vedo però che gli Uffizi visitati come ho fatto io non hanno molto senso. E vedo che nessuno si pone il problema.
      Il problema non è, ovviamente, unicamente degli Uffizi, unicamente italiano. Ho avuto la stessa sensazione di truffa e d'impotenza mentre girovagavo dentro al Metropolitan (con la differenza che per gli studenti è gratis), per non parlare del museo Van Gogh di Amsterdam - io fossi il sindaco metterei obbligatorio all'ingresso il test tossicologico per i cittadini non olandesi. È chiaro che la cultura si costruisce nel tempo, una visita al museo non cambia. Ma quelle abbuffate collettive sono un rito orrendo, perché è evidente che fuori da lì l'Egitto o il Rinascimento o il Re Sole scompariranno dalla nostra mente - o forse, è evidente che l'Egitto o il Rinascimento o il re Sole non ci hanno mai interessato. E allora perché siamo lì, se non per inseguire un mito di cui si è conservata unicamente la reputazione? E perché il museo si occupa unicamente di conservare quella reputazione? Se si entra in un museo per avere fretta di uscirvi - è questo l'atteggiamento del 90% dei visitatori stile "io c'ero" - significa che si è cretini, ma ancor prima vuol dire che quel museo ha totalmente rinunciato alla sua funzione sociale, non riuscendo a rappresentare né un luogo di scoperta (per gli ignari), né un luogo di memoria (per i consapevoli), né un luogo di rielaborazione (per gli artisti). In un posto così, perché andarci? Fama per fama, tutti all'Hard Rock Café che tanto, in ogni " città d'arte" che si rispetti, è di fianco al museo!
      In La razza in estinzione, Giorgio Gaber canta, amarissimo, come sempre:

La cultura per le masse è un'idiozia,la fila coi panini davanti ai museimi fa malinconia.
      In questa frase, che mi canto dentro ogni volta che sono in fila per qualcosa di "culturale" (dimenticandomi che anche io sono la fila), vi è l'idea che la cultura sia e sarà sempre qualcosa di minoritario. Il che, probabilmente, è ineccepibile. Scrive Mario Vargas Llosa in proposito:
      Immaginare che un giorno il numero dei lettori di Mallarmé potrà eguagliare quello dei tifosi di calcio è un'ingenuità. L'arte di Mallarmé, come tutto ciò che le somiglia, non potrà arrivare a tutti gli abitanti della polis senza snaturarsi.
     È veramente difficile non essere d'accordo con Gaber e Llosa, le cui affermazioni rendono completamente inutile tutto il mio ragionamento: se per divulgare l'arte devi farle scendere un gradino, perché ti lamenti degli Uffizi? Tuttavia, è altrettanto difficile accettarle, due frasi siffatte. Perché, dopotutto, quella gente in fila che fa malinconia sta comunque cercando di raggiungere qualcosa di alto, che magari non capisce, ma di cui coglie, ancora, la potenza. A dire il vero, fa molta più malinconia la fila di macchine sui viali di circonvallazione di Bologna dopo le 23.00. La massa in fila fuori dalle gallerie vuole accedere alla cittadella del bello. Rispondergli: dammi undici euro e prendi un'audioguida, tanto sei un pizzaiolo e vedrai che queste info sono anche troppe; fare passare obbligatoriamente la famiglia del pizzaiolo dal negozio di souvenirs perché i bambini vorranno il giochino; fare come se noi, la gente comune, non potessimo ambire ad altro che a un sottoprodotto pop della cultura cui non abbiamo avuto accesso... questo tipo di risposta produce forse un saldo positivo a fine anno, soddisfa forse la domanda del turista consumatore, ma lascia inevasa la domanda del turista viaggiatore. In altri termini: coltiva e sollecita il lato peggiore di noi. Il gabbiano senza più neanche l'illusione del volo.
      È meglio un museo concepito per farci fare per lo meno un gradino, che ci apra quantomeno gli occhi sulla distanza tra noi e un'epoca sostanzialmente sconosciuta, o è meglio un museo che ci porti a spasso nei giardini della nostra ignoranza, dandoci l'illusione di partecipare al Rinascimento - che non abbiamo conosciuto e che mai conosceremo?
      Al di là degli Uffizi, che ho martoriato sin troppo, prendendoli come pretesto, un fatto è certo: invece di portare le masse a conoscere Michelangelo, si preferisce portare Michelangelo alle masse. Non sarà che spiegare poco le cose va a braccetto con venderle meglio? 

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