Magazine Opinioni

Dialogo Kosovo-Serbia, due versioni dei fatti

Creato il 10 agosto 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Valentina Di Cesare

Dialogo Kosovo-Serbia, due versioni dei fatti
Con la visita ufficiale di Ban Ki Moon a Pristina lo scorso 24 luglio, la questione del Kosovo è tornata alla ribalta sulle cronache europee. Il Segretario Generale dell’ONU si è detto preoccupato per i disordini che negli ultimi mesi hanno interessato il piccolo Stato balcanico, specialmente nelle regioni settentrionali. Il nord del Kosovo infatti è abitato da una consistente maggioranza serba che non ha mai abbandonato le proprie abitazioni, nonostante nel febbraio del 2008 il Kosovo abbia dichiarato la propria indipendenza da Belgrado. Sebbene i rapporti istituzionali tra i due Paesi siano ripresi grazie anche alla mediazione degli osservatori esterni e dei membri delle missioni europee di monitoraggio, la convivenza tra Albanesi e Serbi non sembra aver registrato particolari miglioramenti. “Sono molto preoccupato per la situazione nel nord del Kosovo e per l’escalation di violenze susseguitesi nel nord del Paese nell’ultimo anno”, ha dichiarato Ban Ki Moon ai media presenti, aggiungendo che l’unica strada per la stabilità è il dialogo. A ben guardare però, di dialogo politico ce n’è stato abbastanza tra Belgrado e Pristina, sempre se ci si riferisce alle centinaia di appuntamenti istituzionali a cui i rappresentanti politici serbi e kosovari partecipano dal marzo del 2011, periodo in cui hanno avuto inizio i primi tentativi politici di riavvicinamento.

L’UE da allora non ha mai cambiato rotta e con Belgrado ha subito parlato chiaro: nonostante dal 1 marzo 2012 la Serbia abbia ottenuto lo status di candidato ufficiale per l’ingresso nell’Unione Europea, i negoziati di adesione non saranno aperti fino a quando Belgrado non avrà soddisfatto le richieste relative al Kosovo: l’abolizione delle strutture serbe al nord del Kosovo e l’attuazione effettiva di tutti gli accordi raggiunti finora da Belgrado e Pristina. A più di un anno dall’instaurazione del dialogo, la Serbia non ha ancora riconosciuto l’indipendenza del vicino, nonostante almeno dal punto di vista istituzionale i progressi sembrano difatti esserci stati: è del luglio dell’anno scorso la firma di tre accordi, riguardanti la mobilità della popolazione, l’accesso ai registri dello stato civile e il mutuo riconoscimento dei diplomi universitari; a dicembre è stata raggiunta un’intesa sul controllo congiunto sulla regione frontaliera, che dovrebbe metter fine alle tensioni; in febbraio, infine, è stata riconosciuta a Pristina la possibilità di partecipare a tutti gli incontri a livello regionale e al forum politico UE-Balcani Occidentali. Di fatto i contrasti rimangono sul territorio: i Serbi che vivono a nord non si sentono rappresentati dal governo albanese, che invece dal 2008 può contare sull’appoggio delle missioni europee; al tempo stesso, inoltre, la minoranza serba residente Kosovo spesso si è detta “abbandonata” anche dal governo di Belgrado – ormai troppo impegnato a raccogliere approvazioni da Bruxelles e dalle potenze economiche europee – per intervenire concretamente per risolvere la situazione di una delle zone più critiche dei Balcani e del continente europeo.

Il Kosovo resta un territorio fortemente monitorato: le forze NATO (attraverso l’articolata missione Kosovo Force, K-FOR –, le operazioni dell’European Union Rule of Law Mission (EULEX, la più vasta delle missioni nell’ambito della Politica Estera di Sicurezza e Difesa dell’UE) e quelle dell’ONU (mediante la United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, UNMIK), intervenute dopo la guerra che tra il 1996 e 1999 ha messo in ginocchio il Paese, non hanno mai lasciato Pristina. Tuttavia, secondo il parere di diversi osservatori internazionali, il loro operato non ha affatto contribuito a migliorare la già difficile situazione nel cuore dei Balcani. I membri delle missioni e i funzionari europei resteranno in Kosovo fino al 2014, dopodiché, secondo i calcoli, la piccola repubblica autoproclamata sarà in grado di camminare sulle proprie gambe. Come far coincidere però, l’ottimismo delle statistiche e delle proiezioni economiche, con il degrado e le difficoltà che imperversano nella società civile kosovara? Ripercorrendo idealmente il 2012, dall’inizio dell’anno il Kosovo è stato interessato da decine di incidenti con morti e feriti, concentrati principalmente nella zona settentrionale. Dagli omicidi di natura etnica (l’ultimo risalente al giugno scorso, ai danni di una coppia di serbi) alle numerose tensioni per la ricorrenza di Kosovo Polje (luogo simbolo della battaglia del 28 giugno 1389 tra le popolazioni cristiane europee e le popolazioni ottomane islamiche e data in cui, nel 1989, Slobodan Milošević tenne il famoso discorso celebrativo nel quale esaltò la nazione serba e l’unità multietnica jugoslava, senza mai citare l’entità albanese), dagli scontri di natura religiosa (incidenti nei pressi di alcuni luoghi di culto) a manifestazioni di protesta di natura amministrativa (Serbi del nord in sciopero contro l’obbligo di reimmatricolare le proprie autovetture con targhe albanesi), i gravi eventi succedutisi nei primi 7 mesi dell’anno, sembrano percorrere un itinerario opposto a quello dei palazzi del potere.

La stretta di mano tra l’ex Presidente serbo Boris Tadić e il Premier kosovaro Hashim Thaci, avvenuta lo scorso 7 luglio al meeting annuale di Dubrovnik – l’appuntamento che vede riuniti tutti i rappresentanti politici dei Balcani –, è riuscita a riaccendere comunque le speranze dei più ottimisti. Considerato che la Serbia fin dal 2008 ha sempre disertato tale summit come segno di protesta per la partecipazione istituzionale kosovara, la presenza di Tadić – benché da molti spiegata con le possibili pressioni esercitate dalla diplomazia statunitense – ha ammorbidito le platee internazionali, anche se è pur vero che egli non rappresenta più il governo serbo. E’ infatti Tomislav Nikolič, conservatore nazionalista moderato, leader del Partito Progressista Serbo (SNS) e già Vice Premier durante la presidenza di Milošević, il nuovo Presidente della Repubblica Serba e la sua posizione sul Kosovo si è mostrata sin dall’inizio molto rigida. E’ dello scorso 29 luglio un’intervista al quotidiano britannico The Guardian in cui il neo-Presidente ha dichiarato che in Kosovo i Serbi del nord rischiano il genocidio e che per questo non si esclude la scelta di una divisione territoriale in base all’etnia. Nikolič si è inoltre espresso criticamente nei confronti di Tadić e della sua stretta di mano con Thaci: “Non si può stringere la mano ad un uomo che è accusato di aver commesso crimini contro i Serbi, non lo farò fino a quando non sarà dimostrato il contrario”. Thaci si è detto contrariato dalla nuova compagine governativa serba, che rappresenta un passo indietro nei confronti dei progressi sinora compiuti. Il fatto che Nikolič e il neo Premier socialista Ivica Dadič abbiano fatto parte dell’entourage di Milošević (Dadič ne era il portavoce), essi continuano a rappresentare per il popolo albanese violenza e crudeltà. Thaci ha aggiunto che il dialogo potenziato con Tadić, ora all’opposizione, aveva portato a risultati insperati che probabilmente, con questa maggioranza, non potranno più verificarsi.

A premere per una soluzione della questione sono proprio gli USA, per evidenti motivi strategici (Washington mantiene la base militare di Camp Bondsteel, costruita dopo la fine dei bombardamenti sulla Jugoslavia e rilevante anche in un’ottica di contenimento russo). Il Vice Segretario di Stato, Philip Gordon, ha dichiarato che la Serbia dovrà accettare la presenza politica del Kosovo come uno Stato indipendente e democratico e ha esortato il governo di Belgrado a sospendere la propria “ingerenza” amministrativa sui Serbi del Kosovo settentrionale, ormai destinati a rispondere alle leggi e alle disposizioni albanesi. Gli stessi USA e la Germania avrebbero recentemente poi esortato il governo serbo a far ritirare le forze armate nazionali dal nord del Kosovo, e, sempre nei primi giorni di luglio, i rappresentanti del Gruppo Europeo di osservazione e monitoraggio del Kosovo – l’International Steering Group for Kosovo (ISG) – riunitisi a Vienna, hanno dichiarato che si fa sempre più vicina la possibilità di interrompere la supervisione internazionale sul piccolo Stato balcanico. Sarebbe sempre più vicino il momento in cui Pristina proseguirà il proprio cammino da sola.

Eppure, nonostante la fiducia diffusa, gli stessi membri dell’EULEX hanno recentemente accusato di corruzione e cattiva gestione dei fondi pubblici il Ministro della Sanità kosovaro, FeridAgani, e i suoi collaboratori. Inoltre, un recente rapporto dell’INDEP (Institute for Policy Development) ha reso pubblico un dossier sul Kosovo, che ha fatto luce sull’alta percentuale di corruzione nel mondo dei media e della comunicazione nel Paese, dove la libertà di stampa è sempre più a rischio.

Ciò che dunque cade all’occhio è il profondo abisso tra il metodismo d’agenda degli incontri istituzionali fra Ministri e funzionari e la realtà dei fatti. È nella quotidianità, nei fili spinati che solcano le vie dei cittadini comuni, che il famoso percorso di riavvicinamento non riesce a partire. Le strette di mano tra i membri delle istituzioni, forse, non sono sufficienti a considerare la questione kosovara ufficialmente risolta.

*Valentina Di Cesare è Dottoressa in Lettere Moderne (Università di Chieti)


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :