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Lacor Hospital, 6 ottobre
A Milano, l’appartamento dove abito è al primo piano. La finestra di camera mia si affaccia su una piccola via a senso unico del centro storico, una di quelle stradine da Area C che interseca corso di P.ta Romana, all’incirca a metà tra la porta e Crocetta. Una zona tranquilla, tutto sommato, lontana dal caos della circonvallazione e senza lo sferragliare di quei fastidiosi tram arancioni sin dalle prime luci dell’alba.La mattina, durante la settimana, apro gli occhi contemporaneamente alla vibrazione del mio telefono cellulare, un istante prima che, nel buio, cominci a suonare una delle mie canzoni preferite. Una sveglia banale e ordinaria che, possedendo uno dei modelli di telefono più diffusi al globo, condivido sin nei minimi dettagli con migliaia di persone della mia città, milioni di persone in Europa e nel mondo. Spesso mi cimento a impostare orari inusuali (7.02, 7.04... etc) giusto per godermi quel minuto di differenza (in più o in meno, che importanza ha?) con la moltitudine. Ma ho l’impressione che non faccia molto la differenza.Nel fine settimana, quando tento di dormire un po’ di più, la sveglia è meno prevedibile: un signore che passa sotto casa e urla qualcosa al negozio dall’altra parte, i rumori della casa, una di quelle rare ma rumorosissime moto da cross che proprio non capisco perché si ostinino a non bandire dai centri abitati.
Anche qui a Gulu, nella Guesthouse del Lacor Hospital, sto al primo piano. In verità la casa, un bell’edificio in muratura circondato dagli alberi verdi, è costruita su un terreno in pendenza. Accade, quindi, che l’ingresso, con l’ampia sala e i tavoli dove consumiamo colazione, pranzo e cena sia rasoterra, mentre l’uscita sul retro, alla fine del lungo corridoio dove si affacciano le camere, dia su una scala esterna in ferro, da cui si scende qualche metro prima di poggiare i piedi sulla terra rossa. Le mie scarse conoscenze in fatto di architettura rendono questa descrizione surreale quanto quella di un quadro di Maurits Cornelis Escher (si, ho cercato su Google); in realtà è più semplice di quanto sembri.Per qualche mese, tutte le mattine, potrei fare a meno della sveglia: alle 08.00 in punto, per tutto l’ospedale, suona una sirena fortissima e sorda. La chiamano “la sirena del lavoro” e segna l’inizio della giornata lavorativa. Di solito, però, sono già sveglio. Dalla chiesa vicino arrivano spesso, un po’ smorzate, le canzoni del coro e sotto la mia finestra i bambini, numerosissimi e instancabili, cominciano a giocare e ridere molto presto. Non che mi disturbino troppo, di solito sono già sveglio. A volte il telefono della guesthouse, uno di quei vecchi modelli che ancora circolano nelle case delle nonne con quella ghiera circolare da girare per comporre il numero, trilla impazzito, riempiendo l’aria del mattino, ancora fresca e immacolata. E allora qualcuno bussa alla mia porta per avvisarmi che mi cercano dall’ospedale per qualche genere di urgenza, un po’ come essere di guardia 5 mesi di fila. Nel caso, comunque, sono già sveglio. I prati qui intorno sono un grande pollaio a cielo aperto. Liberi e felici girano ovunque polli di varie classe sociale, da semplici pulcini a galli variopinti e pettuti, con ugole da fare invidia a cantanti d’opera. Tendono a svegliarsi abbastanza presto, per far sapere a tutti che ci sono anche loro, nel caso se lo fossero dimenticati nelle 24 ore precedenti.
La mattina, a volte, li prenderei a scarpate dalla finestra se non ci fosse la zanzariera a proteggere me dalla malaria e loro dalla suola; la sera, invece, mi trovo a pensare che forse svegliarsi al canto del gallo sia più originale di qualsivoglia suoneria digitale. Romantico, persino.E, adesso, è sera.
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