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Diario di Barcellona I, di Andrea Sartori

Creato il 06 ottobre 2011 da Fabry2010

Diario di Barcellona I, di Andrea SartoriHo attraversato la città con il mio corpo. O forse ho attraversato il corpo della città?

Chiazze, grumi, masse fibrose, sfilacci, muscoli: quasi inciampavo in parti di corpi. Staccate dal tronco, acefale, analfabete. Frange tagliate, brandelli amputati, gettati intorno a me, proprio sotto il mio sguardo, come a dire che erano lì non a caso, ma per richiamare la mia attenzione, e ad esigerne gli occhi, le retine, e con esse il cavo auricolare, il tatto, i seni nasali.

Non ho potuto trattenere i polpastrelli, che mi sono staccati dalle dita, e ho lasciato ovunque impronte equivoche, non del tutto mie, eppure anche mie. Ditate sui muri, macchie virali di vomito fuoriuscito da gole ulcerate, spruzzi umorali sui portoni delle case. Ed ovunque la complicità sorniona delle guardie urbane con gli spacciatori di fumo, che mormoravano, staccandosi da pareti d’ombra: «Hashish…? Hashish…?»

Uno squarcio di luce talmente debole da sembrare spenta, scheggiava l’ingresso diroccato d’un edificio carico di troppi anni. In un velo luminoso sospeso, spesso come il vapore del mio fiato, un uomo, con ancora più anni addosso, stava piantato in una seggiola, sulle gambe una coperta di panno, dal bordo sgretolato come le rughe del suo volto. Tra le mani un pezzo di cartone, poche lettere impresse con un nero più scuro anche di quell’androne male illuminato: «Teatro della casa barocca». Alle spalle del vecchio, poltrone di velluto amaranto, vuote.

Sono scivolato sulle liste di marmo di Plaza St. Jaume, mentre uno stipendiato della limpieza municipàl innaffiava, con il getto continuo di una lunghissima canna verde, le ferite notturne del selciato. Il viso dell’uomo guardava a pelo il suolo, lo sfiorava con le ciglia. Appostato al centro della piazza, pareva un cecchino intento a prendere la mira, a fare pulizia di quei corpi separati, e poi buttati nella mischia, votati al macello.

All’interno delle taverne sopravvissute all’happy hour basco, delle donne che erano nonne, nonne anche delle loro nonne, guardavano in direzione della strada, disilluse verso i clienti che non arrivavano, le sigarette appoggiate sulle dita, mentre bariste più giovani di loro, ma anche infinitamente più tristi, ascoltavano le litanie del fallimento e dell’abbandono.

L’addio, a Barcellona, dura a lungo.

Ragazze di colore fermavano i passanti davanti ai porno shop, poi li allontanavano, urlando alle loro spalle. Sirene in continuazione. Fughe, segnalazioni, inseguimenti: c’è un’umanità da scacciare!

C’è un’umanità da salvare!

L’ingresso di casa è stretto e blindato. Bambi ha aperto, ed un tizio barbuto sta appollaiato sul gradino al mio fianco. Giro tre volte la chiave, ed entro. M’arrampico lungo sei rampe di scale, con l’affanno giro ancora tre volte la chiave, ed entro. Dentro. Chiudo. Giro tre volte la chiave.

Cellulari sparsi sul tavolo, carica batterie, impianto stereo, televisore a schermo piatto, cavi di connessione, computer, telecomando per il riscaldamento e l’aria condizionata. Una cartina della città, squadernata sul ripiano degli attrezzi di lavoro.

Sudo, mi gira la testa, starnutisco, getto un fazzoletto di carta nel cestino. Sudo nell’aria fredda d’un edificio troppo caldo per permettersi un impianto termico centralizzato. Sono circondato da apparecchi, amplificatori, trasformatori di corrente. Il sudore goccia sul legno del tavolo, sulla tastiera, la condensa del mio respiro s’addensa sullo schermo.

Ancora gocce sui tasti. Perdo parti di me, continuo a perderne, infinitesime tracce liquide del mio corpo che escono dai pori della mia pelle.

Sudo in una notte fredda, mentre mi scappano dalle mani fasci nervosi di dita che pigiano sulle lettere.

Perdo parti del mio corpo, e scrivo: «Ho attraversato la città con il mio corpo…».



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