Ostia me la ricordavo in bianco e nero. Saranno stati tutti quei film italiani girati lungo il litorale ostiense a partire dagli anni ’50. Ostia è a colori invece, anche se dal pontile del lido Plinius vedo la stessa spiaggia di “Una domenica di agosto” di Luciano Emmer: le facce della borgata romane sono cambiate, lo spirito è quello. Le lambrette che arrivavano lì dal centro di Roma sono una foto ingiallita così come i juke-box che sparavano ad alto volume le canzoni di Califano.
Il caffè è rimasto lo stesso. Al bar me lo servono in un bicchierino di plastica perchè, come mi spiega Eva, “er romano vero” lo sorseggia in riva al mare. L’accento colorito della cantante di jazz tra i locali della capitale mi fa ricordare che devo spingermi oltre il mare dell ‘Idroscalo. Ci sono i ragazzi delle borgate che seguono la traiettoria del pallone; le case popolari; gli anziani su una panchina; le aiuole abbandonate, senza neanche un fiore sopravvissuto. Io cerco altro. È lì, in mezzo alla desolazione dell‘Idroscalo, lungo uno stradone che sembra non finire mai. C’è un una scultura che ci rinfaccia le contraddizioni della memoria. Impugno con rabbia il cancello che mi separa da quella zolla di terra, che raccolse il corpo trucidato di PierPaolo Pasolini.
Ci sono pochi modi per dare un significato profondo ad un viaggio disorganizzato. Tornare ad essere noi stessi e rimetterci alla ricerca della nostra coscienza civile, sputando fuori i rospi che ci hanno fatto ingoiare. Ostia me la ricordavo in bianco e nero. Adesso so per certo che è a colori.