I ricordi non sono mai stantii, anche se restano fuori dal perimetro del racconto stesso. Sbircio tra il pubblico in libreria. Tra loro c’è una faccia nota e il suo sorriso mi riporta ai tempi del liceo. Ha gli occhi luminosi come quelli del fabbro Campana. Nelle tiepide mattine di maggio andavo a scuola in Vespa. Papà della mia compagna di classe, il fabbro di Pomigliano d’Arco aveva la bottega a pochi passi dal liceo. Mi lasciava parcheggiare il motorino nel suo giardino e lo teneva d’occhio.
Una mattina non entrammo in classe, perché a scuola mancava l’acqua. I miei compagni se la diedero a gambe ed io mi trattenni nella bottega del fabbro. Mi piaceva osservarlo a lavoro. Mentre riponevo i quaderni nel bauletto della vespa, l’uomo taciturno mi disse: “Ti meravigli che io continui ad usare lo stesso arnese da quando sei arrivato? Bisogna essere lenti come una lumaca per mettere l’anima in ciò che facciamo”.
L’elogio alla lentezza del fabbro Campana ha anticipato il mio incontro da giornalista con Luìs Sepúlveda. Durante l’intervista lo scrittore cileno insistette su quanta saggezza ci fosse nel ritmo lento di raccogliere i dettagli della vita. Forse Sepúlveda aveva già in cantiere di regalarci le pagine di Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza.
I ricordi non sono mai stantii se modellano l’interiorità del nostro futuro. Lo sussurravano già allora gli arnesi del fabbro Campana. Oggi nel bauletto della mia Vespa rossa ho trovato la carezza che mi lasciò in occasione del nostro ultimo incontro. Nella “masseria dei ricordi”, quelli miei, c’è anche il fabbro Campana ed ho riconosciuto la sua carezza, attraverso l’abbraccio della figlia Rachele, nell’ultimo viaggio alla Feltrinelli Point di Pomigliano d’Arco.