Dall’archivio del Bar Frankie, pubblicazione originale del Novembre 2012.
“I calciatori di questa Nazionale non giocano, ma scherzano. Sono due cose molto diverse”. Il che, detto da Carmelo Bene ospite di un’ormai storica puntata del Maurizio Costanzo Show del 1994, sta a significare che gli azzurri di Arrigo Sacchi non sanno fare davvero il loro mestiere, ma si limitano a scimmiottarlo in maniera anche un pò penosa. Perché per l’attore-regista-filosofo che andava fiero di aver riformato il teatro tradizionale inventando la cosiddetta “scrittura di scena” l’atto del giocare era un ritornare bambini, mentre lo scherzo era l’immissione, nel gioco, della malizia propria degli adulti. Una perversione, insomma, della vera natura dello sport. Un modo per uccidere il Pinocchio che si nasconde in ognuno di noi – e non per nulla al bambino di legno che scappa dalle convenzioni degli adulti Bene aveva dedicato una revisione teatrale – per sostituirlo con un alto ufficiale delle forze dell’ordine che si atteggia a giovanotto disinvolto.
Perché, sì, per Carmelo Bene lo sport era un modo per spazzare via, anche solo momentaneamente, la “buona coscienza” borghese, l’immagine – sempre, a proposito del suo teatro, parlò di “una crociata ai danni dell’immagine” – terribilmente seriosa che ciascuno di noi è costretto ad offrire quando ha a che fare con il mondo civile, che nel suo immaginario corrisponde al mondo degli adulti. Ed il campione – quello che, in gergo, viene definito “il calciatore che fa la differenza” – non era caratterizzato tanto da qualità tecniche o atletiche, dalla capacità di creare gioco o di finalizzare, ma dalla qualità di sapersi dimenticare di essere un individuo tenuto ad offrire una determinata prestazione. Un ragionamento paradossale (ma non erano infrequenti i paradossi e le uscite provocatorie, nell’eloquio beniano) che, però, possiede una logica ben precisa. Perché Maradona, contro l’Inghilterra, non fece mangiare la polvere all’intera squadra avversaria in virtù di un ragionamento tecnico, ma abbandonandosi al suo istinto di campione. O, per fare un altro esempio, non fu calcolando in base a criteri balistici la possibile traiettoria del pallone che Marco Van Basten segnò il suo ormai indimenticabile gol contro l’Unione Sovietica durante la finale degli Europei del 1988, ma lasciando perdere ogni calcolo e tentando, quasi disperatamente, di finalizzare.
D’altronde quest’aspirazione ad abbandonarsi, che per Carmelo Bene va intesa nel significato letterale del termine, e cioè come un’aspirazione all’abbandono di sé, al rifiuto di quell’identità sociale – il “pupo”, cioè “pupazzo”, pirandelliano -, non è cosa che riguardi, a suo avviso, solo lo sport, ma tutta la vita. Anche Bene diceva di essersi sentito, effettuando la sua lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di Bologna, non più un individuo a se stante ma una cosa sola col pubblico – persone nella cui memoria era ancora fresca la terribile strage terroristica che un anno prima aveva sconvolto il capoluogo emiliano ed alle quali Bene aveva dedicato la sua iniziativa (impossibile non ricordare le parole con cui chiuse la sua lettura, che volle dedicare “non ai morti, ma ai feriti dell”orrenda strage”). E quando diceva che in quell’occasione lui era “apparso alla Madonna” (ci scriverà su un libro, intitolato Sono apparso alla Madonna) non scherzava affatto, ma indicava una statuetta della Vergine Maria che compariva illuminata in lontananza e nella quale egli volle riconoscere l’unità simbolica tra sé ed il pubblico. Abbandonarsi, insomma, non significa essere più o meno bravi in una determinata attività – e cioè, appunto, “scherzare” -, ma diventare una cosa sola con quell’attività stessa. In questo senso Maradona e Van Basten, Cruyff e Platini, Zidane e Messi non sono ottimi calciatori, ma sono, semplicemente, il calcio. Come del resto, secondo Carmelo Bene, Maria Callas, della quale parlò a lungo durante una puntata del “Processo del Lunedì” (fu spesso ospite dello studio di Aldo Biscardi, dove si divertiva, coi suoi filosofemi, a spiazzare e lasciare basiti gli interlocutori che si trovava di fronte), non era semplicemente un’ottima cantante lirica, ma era l’Arte.