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Dietro la mano ci deve essere lo scrittore

Da Marcofre

Dietro la mano che pesta i tasti del computer, oltre al braccio, al gomito e ad altre parti anatomiche, ci deve essere lo scrittore. Per essere ancora più chiari ed evitare di essere fraintesi: una testa che pensa, sa, conosce (qualcosa).
Si tratta di una banalità sconcertante? Ne siamo davvero sicuri?

Tutto nasce da un equivoco: si immagina, meglio si crede, che lo scrittore sia uno che scrive. Se la maggior parte delle persone la pensa in questo modo, quindi ai loro occhi persino io lo sono, non è dello stesso avviso chi per esempio lavora in una casa editrice. Inoltre, la qualità della scrittura è emanazione dell’idea del mondo di chi scrive. Anzi, sono certo che Cormac McCarthy abbia più di un’idea riguardo al mondo, e questo è un sollievo per il suo editore statunitense.

Questa tiritera per ricordare che lo scrittore è una persona, e la sua scrittura è espressione di un cammino di ricerca e studio, e applicazione, che dura anni. Più o meno questo cammino ha visto cadere clichés, superficialità, sogni, miti.
Se l’editore è appena appassionato del proprio lavoro, non impiegherà molto a comprendere la natura della persone che ci sono dietro alle parole.

L’aspetto che mi lascia invece perplesso, e che trovo piuttosto comune tra coloro che scrivono, è che propongono la loro opera senza nemmeno curarsi della propria persona. Un po’ come presentarsi alla prima del Teatro alla Scala ostentando l’invito, vestiti però di stracci.

Adesso qualcuno potrebbe balzare in piedi e dire che il panorama è piuttosto desolante, e non è il caso di essere tanto pignoli. Le classifiche della vendita di libri sono piene di persone che non sanno scrivere e hanno fatto ricorso a ghost writers. Il self-publishing ha strappato l’alone di “magia” che circondava il ruolo dello scrittore. Sulla propria obiezione concordo, ma a parte questo: chi se ne frega. L’editoria è stata e resta anche ora un luogo dove è possibile trovare di tutto.

Sulla seconda avrei tanto da ridire, ma non è il post giusto credo. Ma se fosse davvero così, non si capisce per quale ragione le case editrici (ricordiamocelo, e ripetiamolo tutti in coro: sono brutte sporche e cattive, e spesso lo sono sul serio), sono ancora adesso invase da dattiloscritti o manoscritti che dir si voglia. Quando con pochi clic posso sbarcare su Amazon.it o Lulu.com. Forse questa è la dimostrazione che il fascino, la magia di un marchio (editoriale), esercitano ancora un fascino irresistibile.

Ma basta con le chiacchiere.
Proprio perché il panorama è desolante, sarebbe meglio ricominciare a ragionare su quello che conta, e che fa la differenza.

Quando crollano le barriere è sempre un bene, ma nell’entusiasmo che ne segue si ignorano quelle qualità che fanno la differenza. Un editore che abbia un minimo di affetto per la narrativa sa che dietro quelle frasi, quei paragrafi ci deve essere una persona. Diciamo pure un insieme di pensieri, convinzioni, una complessità, che gli faccia intendere al volo che quella voce è davvero unica. E che merita un investimento di tempo e denaro (non di chi scrive però: chiariamo subito).

Troppo spesso ci si dimentica di questi ingredienti: un po’ come giudicare una persona dalla sua automobile. Però quando apre bocca e parla, tutto diventa all’improvviso chiaro e comprensibile.


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