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Dio ha salvato i re arabi?

Creato il 19 settembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Arianna Barilaro

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Dal dicembre 2010, partendo dalla Tunisia, il Nord Africa e a seguire gran parte del Medio Oriente, sono stati percorsi da un’ondata di rivoluzioni che ha profondamente scosso gli equilibri, sia regionali che internazionali. La comunità internazionale, scioccata dal susseguirsi di questi movimenti, dopo anni in cui le vicende mediorientali venivano analizzate e affrontate solo in chiave “anti-terroristica” ed attraverso la lente miope che vedeva l’area vivere in una sorta di paralisi politica e democratica, si è mostrata impreparata e maldestra nel fronteggiare e gestire consapevolmente le crisi dell’area MENA: crisi, non solo politiche, ma sociali, economiche e generazionali. E’ interessante notare come la sopramenzionata “paralisi”, che veniva additata dagli orientalisti come mancanza di pulsione democratica, fosse frutto di una erronea rappresentazione e di superficiali analisi che venivano condotte sul mondo arabo: mondo guardato esclusivamente attraverso il “problema” dell’ Islam, estremo per definizione, che rappresentava il “legaccio” dei popoli arabi in termini di Democrazia o di domanda democratica.

L’UN’s Arab Human Development Report del 2004, parlava già di crisi di legittimità nei Paesi arabi evidenziando come “Most regimes, nowadays, bolster their legitimacy by adopting a simplified and efficient formula to justify their continuation in power. They style themselves as the lesser of two evils, or the last line of defence against fundamentalist tyranny or, even more dramatically, against chaos and the collapse of the state (…)”: non c’è da meravigliarsi per le cosiddette “Primavere Arabe”, ma è interessante capire le motivazioni sottostanti il contagio nelle Repubbliche Arabe e le implicazioni, nonché le ragioni, dell’integrità (apparente?) delle Monarchie Arabe.

Al fine di fornire una “strategic explenation for monarchical exceptionalism”, si è cercato di indagare circa i fattori – politici, sociali, economici, culturali ed internazionali – della resistenza e sopravvivenza delle monarchie nei Paesi arabi. I regimi monarchici dell’area sono otto: Marocco, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrain e Kuwait. Sembra che la loro solidità abbia retto all’onda d’urto delle proteste che in parte li ha toccati, ma senza sconvolgerne il sistema: perché?

Per spiegare questa stretta correlazione tra tipologia di regime e la resistenza dello stesso, alcuni analisti hanno cercato di valutarne l’interconnessione attraverso l’utilizzo dei parametri culturale ed istituzionale: l’approccio culturale tende a sottolineare come i monarchi arabi beneficiano di una sorta di legittimazione culturale, tribale o religiosa che opererebbe come un deterrente verso le spinte democratiche capaci di sovvertirne un sistema percepito come precostituito ed incrollabile per natura; l’approccio istituzionale, invece, fa leva sul fattore organizzativo del potere nei sistemi monarchici, in cui il re entra direttamente nelle vicende quotidiane e nelle scelte politiche del Paese, sapendone pertanto percepire prima e meglio il malessere e l’insoddisfazione. Per quanto i due parametri culturale ed istituzionale possano spiegare alcuni aspetti della solidità dei regimi monarchici, non ne forniscono una spiegazione in senso stretto politica, in grado di offrire un’analisi “strategica” dell’eccezione monarchica, eccezione che ha le sue radici e trae la sua forza anche, e soprattutto, dall’ambiente esterno ai singoli Paesi.

Infatti le monarchie arabe, oltre a smentire il “King’s Dilemma”, per cui sarebbe del tutto anacronistico ed incompatibile il permanere di regimi monarchici nell’ordine politico moderno, hanno registrato nelle proteste che le hanno percorse nell’ultimo biennio un pallido tentativo di richiesta democratica, senza approfittare dell’onda mediatica e dell’impatto sociale che l’area stava vivendo: si tratta di qualità intrinseche di questi regimi, in termini di capacità di governo, o di fattori esterni che ne garantiscono l’invulnerabilità?

Nel vedere come e quanto le proteste hanno percorso e scosso le otto monarchie arabe nell’ultimo biennio, notiamo che in Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Oman le proteste sono state praticamente assenti o poco rilevanti, fatta eccezione di Arabia Saudita ed Oman dove le manifestazioni sono state più vibranti e nei quali i governi locali hanno placato il malcontento erogando ingenti somme in sussidi pubblici per case, scuole e lavoro; in Marocco, Giordania e Kuwait le proteste sono state importanti tanto da indurre i governanti a dover accogliere le richieste di maggiore democrazia e partecipazione popolare alla vita pubblica attraverso la concessione di una riforma della Costituzione. Tuttavia le richieste fatte non erano volte ad uno stravolgimento dell’ordine istituzionale ma ad una riforma del sistema economico e politico/elettorale; da ultimo, il Bahrain ha visto forti proteste che richiedevano un cambiamento istituzionale radicale. Se le valutazioni culturali ed istituzionali servono solo in parte ad analizzare la questione delle monarchie arabe, resta da valutare l’aspetto economico e le dinamiche internazionali in cui questi Paesi sono coinvolti.

Partendo dal primo gruppo, Qatar, EAU, Arabia Saudita ed Oman, è immediata la correlazione che si fa con le rendite petrolifere di cui i governi di questi Paesi beneficiano e di come queste rappresentino un elemento di forza in mano al potere centrale, che ha la possibilità di investire e di implementare la spesa pubblica all’occorrenza, soddisfacendo le esigenze economiche e sociali dei sudditi e placandone sul nascere il senso di insoddisfazione; per ciò che riguarda il secondo gruppo, Kuwait, Marocco e Giordania, notiamo che il Kuwait gode di rendita petrolifera come i Paesi del precedente gruppo, mentre Marocco e Giordania non hanno rendita petrolifera, ma godono di agevolazioni sugli idrocarburi dal Consiglio di Cooperazione del Golfo e di enormi aiuti esteri (FMI, USA, UE, Arabia Saudita e Qatar) in ragione della loro posizione strategica e del loro ruolo moderatore negli equilibri della regione MENA.

Da ultimo il Bahrain, che non gode di una rendita petrolifera consistente ma di agevolazioni dai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e di aiuti esteri da parte dell’Arabia Saudita, presenta maggiori criticità per la sua composizione sociale e per il mancato “compromesso” tra le diverse forze presenti sul territorio (con la minoranza sunnita). 

L’insieme delle forze, e la loro sovrapposizione in termini di giochi politici ed impatto sociale, che ha determinato e determina la sopravvivenza delle monarchie arabe è costituito pertanto da tre fattori: coalizioni delle forze sociali interne, rendite petrolifere e aiuti esteri. Al mancare di uno di questi elementi la situazione diviene immediatamente più instabile, rendendo questi Paesi vulnerabili e fragili di fronte al susseguirsi di fattori esogeni capaci di stravolgerne gli equilibri.

Il caso del Marocco e della Giordania

L’onda d’urto delle proteste nordafricane arriva anche nel Regno del Marocco quando nei primi giorni del febbraio 2011 un video disponibile su YouTube invita i cittadini del Marocco a raccogliersi in protesta: il giorno 20 dello stesso mese le richieste sono chiare e precise e dai toni pacati.

La destituzione del governo, lo scioglimento del parlamento e un cambio costituzionale che limiti il potere della monarchia e garantisca la separazione dei poteri giudiziario, legislativo ed esecutivo, la fine della corruzione, il riconoscimento della lingua e della cultura berbere, la liberazione dei prigionieri politici e di opinione, delle politiche occupazionali in grado di creare nuovi posti di lavoro e la garanzia dell’ accesso a dei servizi sociali dignitosi a tutti i cittadini: New York Times, Al Jazeera e France 24 danno particolare enfasi all’evento, e il “Movimento del 20 Febbraio” inizia a destare preoccupazioni all’interno delle istituzioni marocchine, tanto da organizzarne sabotaggio annunciando l’annullamento della protesta sulle principali emittenti televisive nazionali.

Nonostante ciò, il 20 Febbraio 2011 nelle piazze delle città e dei paesi più piccoli del regno dell’Atlante, si sono unite le proteste di milioni di marocchini. La risposta di Re Mohammed VI é stata rapida e duplice: ha nominato un difensore civico nazionale e ha annunciato la nomina di una commissione consultiva per la revisione della Costituzione, ma contemporaneamente ha usato il “pugno duro” contro i manifestanti e il 13 Marzo 2011 in una manifestazione pacifica a Casablanca le forze dell’ ordine hanno ferito decine di persone e, secondo Amnesty International, altrettanti oppositori sono stati fatti sparire.

Dopo il processo di revisione della Carta fondamentale, il Marocco si é trasformato in una monarchia costituzionale, democratica, parlamentare e sociale, ma di fatto il Re non ha rinunciato ai suoi poteri (soprattutto in materia di giustizia), mantenendo intatti i suoi privilegi: la riforma costituzionale, é stata poi sottoposta a referendum popolare, approvato secondo le fonti ufficiali con il 98,5% dei voti. Nel frattempo in Marocco si sono tenute le elezioni parlamentari vinte dal Parti Justice et Development (PJD), partito islamista moderato, a conferma che nonostante i movimenti di protesta le forze conservatrici presenti all’interno del Paese hanno ancora molta forza ed incidenza sociale.

La strategia politica di Re Mohammed VI é riassumibile con la parola araba makhzen (nascondere o magazzino) e si intende quel sistema di potere feudale e tribale portato avanti per secoli da politici, militari, antiche famiglie nobili, autorità religiose e uomini d’affari che gravitano intorno alla famiglia reale, caratterizzato da clientelismo e corruzione e mediante cui il Re si assicura la fedeltà e la sottomissione dell’elite marocchina.

La forza economica e politica del palazzo però, non trova esclusiva giustificazione e ragione d’essere nella strategia di potere messa in atto da Re Mohammed IV: infatti il Marocco é il più importante beneficiario della politica di vicinato dell’ Unione Europea e l’unico ad avere un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti.

Dietro la faccia pulita, moderna e generosa del “nuovo” Marocco, vengono nascoste le contraddizioni e gli abusi del “vecchio” Marocco.

Anche la Giordania è stata, ed è, percorsa dal “vento di cambiamento” che le proteste dell’area hanno sollevato, ma con modalità differenti rispetto gli altri paesi coinvolti.

L’impatto e l’irruenza che si sono viste nelle rivolte tunisine ed egiziane, non si sono riscontrate nelle manifestazioni di dissenso giordane: manifestazioni che mai hanno messo in discussione la leadership di Re Abdullah II, ma che chiedevano riforme politiche ed istituzionali in grado di permettere al Paese una progressione sociale, in termini di corretta gestione della “cosa pubblica”, di sviluppo economico ed occupazionale e di riforma della legge elettorale e sui partiti politici.

Le rivolte in Giordania, dietro cui è evidente l’influenza dei partiti islamici e dell’associazionismo islamico in generale, fondavano le loro richieste sulla base di un’urgente riforma costituzionale, capace di dare alle istituzioni del paese una svolta “democratica” in termini di accountability.

La riforma costituzionale dovrebbe riequilibrare e bilanciare il potere fra i poteri statali, soprattutto per ciò che riguarda l’indipendenza e la terzietà del potere giudiziario e per rendere effettiva ed indipendente l’attività legislativa del Parlamento giordano, nelle materie di sua competenza, senza subire ingerenze da parte del Governo: sarebbe la revisione costituzionale più incisiva che la storia giordana abbia mai visto, con la riforma di ben 42 articoli della Carta costituzionale hascemita.

In questo contesto, al susseguirsi di sempre più numerose e popolari manifestazioni di piazza, il governo giordano ha deciso di istituire una commissione per il dialogo nazionale, National Dialogue Committee, guidata da un politico moderato come Taher Al-Masri, con l’obiettivo di creare uno spazio condiviso di dialogo in grado di formulare le nuove leggi sui partiti politici e sul sistema elettorale. Nonostante la Commissione per il dialogo nazionale non abbia ricevuto il consenso e la collaborazione da parte dei movimenti islamici giordani che boicottarono le sedute della stessa, questa ha redatto ed adottato il nuovo sistema elettorale basato su la composizione mista del parlamento, in cui l’ 88,5% dei parlamentari siede su base proporzionale di liste aperte elette a livello dei governatorati locali, mentre l’ 11,5% dei parlamentari siede su base proporzionale di liste a aperte a livello nazionale, con l’aggiunta di alcuni “premi” per gli esponenti delle comunità beduine giordane.

E’ necessario segnalare in questa sede, data la breve panoramica esposta riguardo alle cosiddette “Primavere Arabe” in generale e ai movimenti di protesta che hanno coinvolto, ma non scosso, la Giordania, il fatto che il 10 Maggio 2011 il Consiglio di Cooperazione del Golfo abbia deciso di accettare la candidatura della Giordania per entrare a far parte del Consiglio: da un lato, ciò comporterebbe enormi vantaggi economici per il paese, mentre dall’altro è innegabile nascondere le influenze e le ingerenze che le potenze, come l’Arabia Saudita e il Qatar, eserciterebbero in termini politici, economici e sociali sulle scelte di politica interna ed estera che la Giordania andrà a compiere.

La stabilità del Paese rappresenta, sia per i paesi del Golfo che per l’Occidente, un presupposto indispensabile utile al mantenimento degli equilibri della regione, alla luce della posizione geografica e politica che la Giordania ricopre: le sfide future, e le maggiori criticità, sono rappresentate dalla forte crisi economica che percorre il Paese, oberato e soffocato dalla gestione dell’enorme flusso di profughi siriani, che rappresentano un forte elemento di instabilità economica e sociale.

*Arianna Barilaro è Dottoressa in Giurisprudenza (Università La Sapienza – Roma)

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