Da papa Francesco sono giunti, nei suoi primi giorni come vescovo di Roma, segnali di apertura ecumenica incoraggianti all'insegna di una collegialità episcopale. Nella sua prima omelia ha parlato del dovere di «custodire» l'uomo e il creato.
Sono segnali positivi, direi, quelli espressi da Francesco, molto familiari per coloro che vivono nel quadro della riflessione ecumenica. La custodia del creato è un programma addirittura del Consiglio ecumenico delle Chiese (nato a Ginevra) iniziato già negli anni Ottanta e proseguito negli anni a seguire. Un tema caro al movimento ecumenico mondiale, che per primo ha saputo lanciare la parola d'ordine «Giustizia, pace e salvaguardia del creato». Il fatto che il tema sia stato ripreso e riproposto con l'autorità che è propria del papa e che diventi un messaggio «Urbi et Orbi», mentre prima era in fondo un discorso non di minoranze, certamente, ma più limitato al Consiglio ecumenico delle Chiese, è un'apertura che va certamente registrata con grande favore, così come pure l'insistenza fatta sulla tenerezza, sull'amore, sull'attenzione all'altro.
Tutti temi evangelici: chiunque frequenti gli Evangeli e il Nuovo Testamento non può che rallegrarsi del fatto che, da quando c'è papa Francesco, da Roma giungano parole belle, buone e che fanno del bene a tutti noi, proprio perché sono le parole dell'Evangelo.
È difficile parlare di rottura, perché si tratta pur sempre di papato e quindi c'è una continuità di tipo istituzionale, ma sul piano dello stile – e direi anche, a questo punto, dei contenuti... almeno questi primi contenuti – vedo certamente una discontinuità. Quella ad esempio di aver rinunciato (come avevano già fatto Giovanni Paolo I e II, e Benedetto XVI) alla categoria dell'«intronizzazione» a favore di quella più normale di «inizio del ministero petrino come vescovo di Roma». Con questa forte insistenza sul «locale», dove il papa non è più il pastore universale con competenze sovrumane che può governare il mondo intero ma diviene pastore locale valorizzando e riconducendo il papato a dimensioni umane. Questo penso sia un bene per il papato stesso, per la Chiesa cattolica e per tutta l'ecumene cristiana.
La partecipazione di Bartolomeo I alla messa con la quale Francesco ha dato inizio al suo ministero petrino di vescovo di Roma (era la prima volta che un patriarca ecumenico faceva questo gesto) appare un segnale importante di volontà di riconciliazione tra Ortodossia e cattolicesimo...
Il fatto che il patriarca ecumenico, primus inter pares tra i gerarchi ortodossi, abbia preso parte a quella celebrazione è certamente un fatto simbolico importante. Dobbiamo tuttavia ricordare che lo stesso patriarca è lui stesso un simbolo, perché come tutti sanno la Chiesa di cui lui è primate, quella dell'antica Costantinopoli, oggi è ridotta al lumicino, in quanto in Turchia la presenza islamica è del tutto maggioritaria e i pochi ortodossi presenti nel paese (e anche gli altri cristiani) vivono la loro fede non senza difficoltà. Dunque è molto bello come segnale il fatto che il patriarca abbia partecipato, ma ricordo che l'Ortodossia oggi è rappresentata essenzialmente dalla Chiesa russa. Se si fosse trattato del patriarca di Mosca e di tutte le Russie allora avrebbe avuto un significato più importante, ovviamente dal punto di vista politico; dal punto di vista spirituale molto bene la presenza di Bartolomeo I, che come patriarca di Costantinopoli è simbolicamente rappresentativo dell'Ortodossia, anche se il suo peso reale, dei «numeri», come si usa dire, non è così rappresentativo.
Un segnale importante, richiesto da molte esperienze cristiane post-conciliari al nuovo pontificato, è certamente l'apertura alla collegialità episcopale che Francesco ha già più volte richiamato.
Nella sua potenzialità è un segnale davvero importante, perché se il governo della Chiesa cattolica diventasse collegiale intanto si realizzerebbe ciò che finora non è mai stato realizzato, ossia lasperanza del Concilio Vaticano II: che attraverso la dottrina della collegialità episcopale si riequilibrasse lo squilibrio creato dal Vaticano I con il dogma del primato e dell'infallibilità del pontefice romano. Questo sinora non è accaduto perché il Sinodo dei vescovi, creato nel 1965 da Paolo VI per realizzare, in teoria, la collegialità, di fatto è una assemblea che non ha nessun potere reale e decisionale, riducendosi a organo per «dare consigli» al pontefice romano. Se invece si realizzeranno le forme che papa Francesco sembra tenere in serbo, e se la conduzione della Chiesa cattolica diventerà più collegiale, o addirittura più sinodale, tutto ciò andrà proprio nella direzione in cui vive e spera la maggioranza delle Chiese cristiane.
Papa Francesco, per ora, su molti temi etici, bioetici e su altre questioni rimaste aperte sotto il suo predecessore non si è ancora pronunciato. È ancora presto per poterlo pretendere?
Io non credo che si possa pretendere tutto e subito: sarebbe una richiesta prematura, a pochi giorni dal suo insediamento. Anche se conosciamo alcune sue posizioni, così come i dissapori avuti in passato con la presidente argentina Kirchner in merito al tema del riconoscimento delle unioni omosessuali, sembra adesso che Francesco e la presidente si siano, forse, riappacificati. Parlando in generale, bisogna riconoscere che il mondo politico, sostanzialmente, omaggia il papa, lo onora, lo visita; in sintesi, piega le proprie ginocchia davanti a lui. Un fatto che meriterebbe una riflessione... non soltanto perché si tratta di un capo di Stato. Vedremo se Francesco saprà modificare qualcosa anche in tal senso, ossia nel rapporto unico anche nella cristianità di una Chiesa che ha anche uno Stato, la Città del Vaticano, e dunque di una Chiesa che lo vede capo religioso ma, di per sé, anche politico.
La Chiesa cattolica è stata colta di sorpresa dalla novità di un papa come Francesco o si è trattato di un inevitabile e forse voluto punto di arrivo, resosi per così dire necessario a causa dei molti scandali che hanno lambito i vertici vaticani in questi ultimi tempi? Insomma, il conclave ha sentito l'esigenza di dare al popolo cattolico un segnale di cambiamento di direzione?
Credo che le due cose vadano di pari passo. Che si tratti di una novità non ci sono dubbi e lo stupore, anche all'interno della stessa Chiesa cattolica, è evidente. Pensate ad esempio se fosse avvenuta l'elezione del cardinale Scola: certamente avremmo assistito ad un inizio diverso di pontificato. Anche l'esigenza di cambiare credo che fosse avvertita, ma che il cambiamento avvenuto – almeno fino a ora – sia superiore alle aspettative è anche un dato di fatto. Ci sono certamente tutti e due i motivi che lei suggeriva.
Lei, come teologo protestante, quali aspettative ha rispetto al nuovo vescovo di Roma?
Viene in mente il ricordo di Pio IX salutato come papa liberale e che poi ha finito con il proclamare al Concilio Vaticano I, il 18 luglio 1870, l'assolutismo clericale con la costituzione dogmatica sulla fede cattolica, quella che proclama l'infallibilità papale. È vero che bisognerebbe essere prudenti, però credo che quando in una Chiesa molte cose procedono bene, come in questo caso a inizio di pontificato, noi ce ne dovremmo rallegrare. Dovremmo essere contenti. Perché tutte le novità sono positive e queste sembrano andare proprio nella direzione che ci vede, come protestanti ed evangelici, vivere la Chiesa. Ovviamente, per noi protestanti il papato è un'istituzione non evangelica e crediamo che sia molto difficile che al suo interno si possa praticare l'evangelo. Per noi la Chiesa deve essere senza papa. Se ad esempio il papa – se non de iure, almeno de facto – rinunciasse alla sua pretesa di essere il pastore universale, di governare tutta la cristianità (quindi anche le Chiese ortodosse ed evangeliche), se rinunciasse alla pretesa per cui l'unità cristiana è possibile solo cum Petro et sub Petro (perché non si può essere «con Pietro» se non si è «sotto Pietro»), se tutte queste cose venissero messe da parte e ciascuno vivesse il suo modo di essere cristiano nella fraternità e nell'amicizia, nella solidarietà reciproca, anche provocando alcune «gelosie» come diceva l'apostolo Paolo, proprio quando parla del rapporto tra cristiani ed ebrei nella Lettera ai Romani... se questo accadesse – e questo può, secondo me, accadere – si entrerebbe non solo in un clima nuovo di rapporti tra le Chiese ma anche in un possibile, almeno parziale, cammino comune. Se ancora, ad esempio, Francesco rinunciasse al titolo di «Santo padre», sarebbe per tutti noi un segnale importante. Gesù in Giovanni, 17, invoca Dio dicendo «Padre santo». Ci sono stati dei papi riformatori, ad esempio Gregorio Magno, nel VI secolo, che hanno fatto del bene alla Chiesa. Vedendo l'inizio di questo pontificato di Francesco si può ragionevolmente sperare che venga qualcosa di buono da Roma e non soltanto per la Chiesa cattolica, ma per la cristianità nel suo insieme. intervista a Paolo Ricca a cura di Gian Mario Gillio in "Confronti" dell'aprile 2013 - www.chiesavaldesetrapani.com