Il dissenso politico è a rischio in Arabia Saudita
Detenzione prolungata senza processo, restrizioni alla possibilità di accedere alla tutela legale e un maggior ricorso alla pena di morte: sono, in sintesi, i punti chiave della nuova legge antiterrorismo che sta per essere varata in Arabia Saudita.
Le prime indiscrezioni sul contenuto della legge sono state diffuse da Amnesty International. L’associazione per i diritti umani sostiene che simili misure finirebbero col soffocare anche la legittima protesta pacifica all’interno del Paese, anche se una fonte ufficiale saudita ha affermato che i provvedimenti citati non sono pensati contro i dissidenti politici ma per colpire i terroristi.
Peccato che nelle dittature e nei regimi autoritari (e la monarchia saudita non è certo un campione di democrazia) il concetto di terrorista tenda a diventare spesso molto vago e ad includere anche gli oppositori politici.
La nuova legge propone, infatti, un ampliamento della definizione del crimine di terrorismo, comprendendo qualsiasi azione volta a «danneggiare la reputazione dello Stato» o «mettere in pericolo l’unità nazionale». Con definizioni così ampie è forte il sospetto che chiunque manifesti il proprio dissenso contro il regime possa essere accusato di terrorismo. Inoltre il documento contiene diverse misure in aperto contrasto con le leggi fondamentali saudite e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
Tutto questo va ad innestarsi su una situazione già critica sul versante dei diritti umani, in un Paese in cui i partiti politici sono vietati e non è concessa la patente di guida alle donne.
Negli ultimi dieci anni la lotta al terrorismo internazionale e il ruolo (vero o presunto) di custodi contro l’islamismo radicale hanno fornito ai dittatori mediorientali futili pretesti per rafforzare il proprio potere e aumentare il controllo e la stretta repressiva sui cittadini.
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