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disuguaglianze e diversità

Creato il 22 aprile 2014 da Gaia

Non si è ancora capito se Renzi ce la farà a ridurre gli stipendi dei manager, dato che finora pare che non possa, o voglia, imporre dei tetti per legge. Nel dibattito su quanto sia giusto retribuire un dirigente, sia nel pubblico che nel privato (perché anche il privato, su scale così larghe, si può considerare pubblico), bisogna tenere sempre in considerazione numerosi fattori, per evitare di appiattirsi sull’idea che esista un libero mercato che determina i compensi e che in esso quanto più uno è bravo tanto più viene pagato. Molti stipendi sembrano più il risultato di favori e intoccabilità, o autodeterminazione del salario e ricatti di categoria, e comunque anche il concetto stesso di bravura è molto relativo: Moretti fa fare utili alla sua azienda ma sta distruggendo il sistema ferroviario italiano. È bravo?

Una delle domande principali da porsi è: ma cosa ci fanno con tutti questi soldi? Per giustificare il fatto di erogare somme del genere bisognerebbe poter dimostrare innanzitutto due cose, e cioè che servono da motivazione per il lavoro e che ne abbiano in qualche modo bisogno. Come dimostrano esempi rari ma veri, come Enrico Mattei se parliamo di manager italiani o José Mujica se cerchiamo esempi recenti, è possibile rinunciare volontariamente a qualcosa che ti viene dato, cioè in questo caso parte del tuo stipendio, e lo stesso fare il tuo mestiere. Esiste persino un supercapitalista come Warren Buffet che non vuole vivere nel lusso e chiedere addirittura di essere tassato di più dal governo americano. Ma al di là degli esempi più nobili di come sia possibile vivere sobriamente o relativamente sobriamente, la realtà è che un manager superpagato, se fa bene il suo lavoro, non può materialmente avere il tempo di spendere tutti i soldi che pretende. Oltre una certa cifra, l’agio si è trasformato in lusso ma persino il lusso è saturo, e spendere milioni di euro ogni pochi mesi diventerebbe un lavoro a sé. Non può neanche migliorare di tanto la qualità della vita: esistono dei tetti anche per questo. C’è un limite a quante ville da sogno si possono occupare in un anno: abbiamo tutti un solo corpo a testa. E allora perché questa gara tra manager a chi guadagna di più soldi che presumibilmente non riesce neanche a spendere? Cosa ci vogliono fare? Io ho sempre pensato che si trattasse proprio di questo: una gara. Nello sport, nello spettacolo, è lo stesso: sotto sotto so che mi andrebbe bene anche un decimo di quello che chiedo, ma che figura ci faccio se prendo poco? Gli altri hanno dieci? Io voglio undici. È soddisfazione, è vittoria, è potere, poter dire: guarda quanto guadagno io. Non si tratta quindi tanto di premi per un buon lavoro svolto, di incentivi a lavorare di più, di mercato, quanto di un desiderio competitivo di primeggiare sugli altri che giocano nella stessa categoria. È solo una questione di status e di stipendio come status symbol (la mia ipotesi è che, a livelli così alti, lo stipendio non serva ad acquistare status symbol quanto funga da status symbol esso stesso. Però non lo so, magari mi sbaglio). Questo articolo lo spiega bene, facendo anche un interessante paragone con le gare di ostentazione materiale dei ricchi di fine ottocento.

Passiamo ora a un tipo diverso di dis-eguaglianza, cioè la diversità culturale. È un po’ che rimugino su questo articolo, secondo il quale il responsabile dell’ONU per le migrazioni, Peter Sutherland, ex presidente di British Petroleum e direttore non esecutivo (?) di Goldman Sachs, ha detto che l’immigrazione serve per la crescita economica e che l’Unione Europea deve diventare più multiculturale e deve indebolire l’attaccamento degli stati membri alla propria “omogeneità”. La prima cosa che mi è venuta in mente è che questo è proprio il genere di esternazione che è concesso a proposito di società ricche con coscienze sporche, ma che diventa assolutamente tabù se rivolto a qualsiasi collettività non bianca. Immaginatevi un super dirigente e super funzionario che dice ai cinesi che si assomigliano troppo tra di loro o all’Africa che deve smetterla di essere così nera. Probabilmente sarebbe costretto a dimettersi. Agli europei invece si può dire, e un’uscita del genere passa abbastanza in sordina. A me invece ha colpito, per tre motivi.

Uno. È ormai sempre più evidente, e mi pento di essermene accorta tardi, che le migrazioni di massa fanno gli interessi principalmente del capitalismo, che ha bisogno di crescita demografica per avere la crescita economica, e di manodopera a basso costo per far guadagnare di più chi la assume e tenere bassi i prezzi e quindi contenti i consumatori. La sinistra ci è cascata, in parte stupidamente, in parte comprensibilmente perché ha preso le parti di una categoria debole, cioè quella dei migranti. Ieri ho letto un articolo dell’Economist che mi ha fatto così schifo che non lo linko neanche, ma che sostanzialmente riportava le considerazioni del governo giapponese secondo cui il Giappone ha il “problema” del calo della popolazione. Si parla dell’omogeneità giapponese creando nella mente del lettore proprio questa equazione razzista=contrario all’immigrazione che gente come Sutherland vuole inculcare agli europei. In sostanza: l’immigrazione di massa fa gli interessi della crescita economica e del capitalismo, ma al tempo stesso provoca dei cambiamenti a livello culturale; disorientati o ignoranti, alcune categorie di cittadini confondono i due piani e resistono a entrambi i cambiamenti, quindi: rinuncia alla tua cultura e accetta che venga messa la crescita economica sopra tutto, se no sei razzista. Ci sono cascati tutti. Adesso è il capitalismo a essere internazionalista, non il comunismo (o quel poco che ne rimane).

Due. L’Europa non è omogenea. È un crogiolo di lingue, culture, tratti somatici, tradizioni. Ha una grandissima diversità interna, spesso repressa da quegli stessi stati nazione a cui adesso si chiede di accettare non la diversità antica del continente, ma una diversità nuova. Persone come Sutherland, evidentemente, questa diversità già esistente non la vedono nemmeno. Non si può vedere dai vertici delle multinazionali e delle Nazioni Unite: bisogna vivere nelle cittadine, tra le montagne, imparare lingue parlate da piccole comunità remote o dialetti di bassifondi cittadini, conoscere la storia non a grandi linee, ma nelle sue pieghe locali. Naturalmente la storia europea, da cui questa varietà deriva, è una storia di migrazioni, stermini, colonizzazioni interne e poi esterne, conversioni di massa, esodi. Da un certo punto di vista, l’attuale cambiamento verso una maggiore “multiculturalità” si inserisce in questa lunga storia, e quindi non va temuto: è sempre stato così, inutile resistere. Ci sono però tre differenze. La prima, fondamentale, è che ora il continente non solo è colmo, ma ospita più gente di quanta è in grado di sostenere. L’intero pianeta è in questo stato. Non c’è più nessuna terra vergine che possiamo permetterci di intaccare. La seconda è che in passato si trattava in buona parte di conquiste e invasioni. Nessuno si faceva da parte volentieri: doveva essere sconfitto. Adesso, per fortuna, in Europa non facciamo più guerre per difendere il territorio. È anche vero, però, che non abbiamo più il concetto di territorio, e questo potrebbe costarci caro quando ci troveremo a dipendere direttamente da esso. La terza differenza è che gli spostamenti di popolazioni, fino a pochi secoli fa, si scontravano con limiti logistici che li rendevano più lenti e più limitati. Raramente una popolazione migrava in massa molto lontano dalla propria terra di origine (che in realtà per tutti è l’Africa, lo so), per cui l’Europa è diventata un mosaico composto da molti colori, ma non da tutti. Anche in questo risiederebbe l’unicità di ciascun paese o continente: una diversità non monocolore ma nemmeno quella infinita che alcuni vorrebbero ora. Il colonialismo, la globalizzazione, i progressi tecnologici hanno reso infinita la possibilità di espansione e spostamento. Ormai, nessun limite fisico o energetico, ma solo la eventuale volontà di resistenza, impedirebbe all’intera Africa, Cina o Bangladesh di venire a vivere nell’Europa occidentale.

Tre. Mi ha rincuorato, nella sezione dei commenti di quell’articolo dell’Economist di cui vi parlavo, vedere che un lettore critico nei confronti dell’immigrazione si dichiarava pro-diversità. Anch’io la penso così. Non c’è maggior minaccia alla diversità vera di questa omologazione multiculturale. La diversità, infatti, presuppone omogeneità, e questo nessuno sembra capirlo. Se io mi entusiasmo perché mi trovo in un luogo assieme a, per dire, indiani, cinesi, siriani, è perché significa ancora qualcosa essere indiano, cinese, siriano (o friulano, uiguro, maori, metteteci quello che volete voi). Significa, pur con le sue evoluzioni, con le sue differenze, avere una cultura distinta rispetto alle altre e con caratteristiche proprie; dei tratti somatici diversi, spesso adattati a un ambiente; una storia, una cucina. Nessuna di queste caratteristiche dev’essere per forza immobile, intoccabile, ma cancellarle tutte per mescolarle all’infinito annullandole le une nelle altre mi sembra la cosa peggiore che possiamo fare. Inoltre, presuppone uno sradicamento perenne e l’impossibilità di costruire nuove culture, che richiedono che almeno qualcuno stia fermo in un posto. Quello che sta succedendo è che lo spostamento di enormi masse di persone in tutto il pianeta rischia di creare migliaia di comunità multietniche che però si somigliano tutte, come le metropoli stanno diventando tutte uguali a forza di grattacieli. Se Roma diventa come Londra, Singapore come Parigi, Tokyo come Madrid, cioè ognuna accoglie persone diverse culturalmente e fisicamente in quantità tali che la sua identità ne esce stravolta, non siamo davanti a una minore, e non maggiore, diversità?

Naturalmente, ha senso porsi questi problemi fino ad un certo punto. Ci sono cose che non si possono fermare; questo però non impedisce di formarsi un’opinione in proposito e cercare di vivere secondo un ideale piuttosto che un altro.

La mia opinione è che entrambe le variabili, omogeneità e diversità, abbiano un valore. Il nazionalismo fu una forza in buona parte liberatrice nell’Ottocento, genocida nel Novecento, e ora è fuori moda, tranne che nei casi delle minoranze all’interno degli stati. A sinistra, dove io preferisco trovarmi anche se con sempre maggiori difficoltà, è la diversità a essere un valore e il richiamo all’identità visto con sospetto. Questa idealizzazione porta anche ad affermazioni superficiali e pigre. Non è vero, ed esempio, che ci vogliono società ricche di diversità e multiculturali per far avanzare scienza e cultura: l’antica Atene ne è un esempio. Il Giappone è un altro esempio di chiusura avanzata e originalissima. Non è nemmeno possibile che una società possa essere completamente omogenea: anche se la cultura è comune, possono esserci differenze di genere o di età, oppure di classi sociali, come i russi dei romanzi dell’Ottocento che erano nazionalisti però parlavano francese. Come si stanno globalizzando le masse, così anche le élite. Un esempio è l’alta moda, che guarda sempre più a est, in Russia, in estremo Oriente, oppure agli Emirati Arabi Uniti, insomma a tutti i posti dove i nuovi ricchi vogliono appropriarsi dei simboli globali del lusso – alcuni dei quali, come moda, arredamento, motori, possono provenire proprio dall’Italia. E a proposito di Italia nel mondo, si è iniziato a parlare anche dei compensi stratosferici dei nostri ambasciatori – altro settore dove il governo sembra far fatica a tagliare. Tornando da dove ero partita vi lascio con questo articolo, e la speranza che non ci abitueremo mai a certe cose.


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