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Don Bosco ritorna al Ferrante Aporti

Creato il 02 febbraio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

In occasione del bicentenario della sua nascita, Don Bosco ritorna al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Si è svolta questa mattina, nell’istituto di via Berruti e Ferrero, la cerimonia di inaugurazione e benedizione di un gruppo scultoreo dedicato al Santo e destinato alla cappella del carcere. Tra i presenti, l’Arcivescovo Cesare Nosiglia, la Direttrice dell’IPM Gabriella Picco, diversi rappresentanti dell’amministrazione della giustizia minorile e, naturalmente, i giovani detenuti.

Il gruppo ligneo -intagliato in legno di faggio- è un’opera di Aldo Pellegrino, artigiano di Boves che ha fatto dell’arte sacra il mestiere di una vita, ma che realizza anche strumenti musicali personalizzati. Il gruppo di Don Bosco -poco più di un metro di altezza-  raffigura il santo con San Domenico Savio e un secondo ragazzo. «Lo spunto di questo gruppo arriva da un quadro che c’è nella chiesa inferiore della Basilica di Colle Don Bosco. È molto importante perché da lì ho tratto la postura, l’atteggiamento del santo». Ed è proprio così: la pala d’altare di Cafaro Rore, che raffigura le passeggiate autunnali di Don Bosco con i ragazzi, lo rappresenta con la mano destra verso l’alto, quasi a fare da tramite con il cielo. Pellegrino -che lavora con la sorella e il figlio Luigi- ha spedito opere in tutto il mondo, dal Ghana a Marsiglia, e ha realizzato quasi tutti i santi, «ma a Don Bosco sono particolarmente affezionato, come del resto a tutto ciò che è legato ai Salesiani». Tanto che ha diretto il restauro della statua di Maria Ausiliatrice, nella Basilica torinese. Questa statua, che ha voluto dal volto «autorevole ma non autoritario» è l’ultima di una lunga serie. A domanda, risponde allegro: «certo che ne ho anche a casa».

A presentare lo scultore e introdurre la cerimonia è Don Domenico Ricca (per tutti don “Mecu”), cappellano del Ferrante Aporti, che -dopo il saluto di Antonio Pappalardo, dirigente del Ministero della Giustizia- si concede «una decina di minuti di predica, anche il Papa dice che vanno bene». La statua è una sua idea, regalo frutto di donazioni di tanti privati e dei salesiani dell’istituto Agnelli. Ma perché proprio Don Bosco?

Perché un Don Giovanni Bosco al Ferrante c’era già, e Don Domenico l’ha trovato quando è arrivato, nel 1979. Era un busto tutto rovinato e senza testa, ormai da buttare. E lui, che come quasi tutti i cappellani del carcere è salesiano, ne ha voluto uno nuovo. Questa statua andrà nella cappellina del carcere, dove i detenuti che lo desiderano possono partecipare alla funzione ogni due settimane: «Don Bosco è qui, è anche qui, è al Ferrante Aporti». Proprio nell’anno in cui il mondo guarda Torino, in occasione del bicentenario e dell’ostensione della Sindone.

Il secondo motivo è legato alla storia del santo, che era rimasto colpito dai detenuti dopo una visita alle carceri delle Porte Palatine. Una scelta preferenziale verso quelli che soleva chiamare “giovani poveri, abbandonati e discoli” e l’inizio del suo metodo educativo. In questo contesto Don Bosco visita il Ferrante -al secolo la “Generale”- nella Pasqua del 1855, per uno dei suoi tradizionali ritiri spirituali. Al termine dei quali, era solito portare i giovani in gita a Stupinigi. Resta nelle biografie e nella storia la sua infuocata discussione con l’amministrazione, che arriva fino all’allora ministro Rattazzi, per ottenere il permesso di portare via per un giorno i giovani detenuti. «Se ne scappa uno, mettete in carcere me». Il resto è storia, ma i fondamenti della sua contrattazione con i ragazzi restano nell’esperienza di chi oggi, come allora, si occupa di loro. «Fiducia, corresponsabilità e il riuscire a renderli protagonisti», continua Don Mecu. E se questo avviene, allora Don Bosco è qui e parla a tutti, al di là di ogni religione, fede, e convinzione, anche ai non credenti. E conclude «perché Don Bosco -come si dice qui- è un nome che tira. E vi abbraccia tutti».

Don Bosco

Don Domenico Ricca e la Direttrice Gabriella Picco
Copyright Alberto Schilirò

Non parla solo al pubblico, ma soprattutto ai ragazzi, i giovani detenuti presenti in sala. È lo stesso messaggio che il Pontefice ha già ribadito più volte, e le parole chiave sono credere in se stessi. «Ci sono ideali grandi alla vostra portata, se credete che sia possibile».
Anche l’arcivescovo Nosiglia («mi ricordo quando cantavo “Don Bosco ritorna”, al coro dei salesiani del mio paese») insiste sulla stima che il santo provava nei confronti dei giovani, al di là di considerazioni morali o legali, che li rendevano diversi. La possibilità di un riscatto nella vita e nel lavoro.
È pragmatico, Nosiglia, e i giovani sono tutti attenti. Guardare al domani in carcere è possibile e doveroso: è una condizione di lontananza dagli affetti, di isolamento, di dolore, di introspezione, ma può diventare un modo di ricaricarsi per affrontare il proprio domani. La base di tutto è imparare a vivere insieme nel rispetto reciproco: non è facile ma non è impossibile. Dopo i fatti di Parigi, l’ascoltare queste parole in un mondo multiculturale e multietnico ha una luce diversa. Lo rende possibile.

L’arcivescovo conclude, con un appello a chi lavora in carcere e accompagna le giornate dei ragazzi. Perché tutta la società ha una parte di responsabilità per la loro presenza lì. C’è bisogno di gesti concreti, come quelli di Don Bosco. «Non lasciatevi rubare la speranza, da oggi -ma in realtà c’è sempre stato- avete un amico in più». E non c’è dubbio che sarà così: i numeri della partecipazione religiosa infatti sono altissimi. Attualmente, circa la metà degli ospiti è di fede musulmana, mentre gli altri si dividono tra cattolici e ortodossi. Pochissimi, i non credenti. Quasi tutti partecipano attivamente: i musulmani preferiscono un percorso individuale, mentre i cristiani -pur di confessioni diverse- condividono i riti.

Non solo un fatto di fede, però. La conferma viene da Marcella Longhi, preside della scuola del Ferrante Aporti, «il messaggio di Don Bosco va al di là di quello confessionale ed è tutt’ora valido. Ancor più in luoghi in cui la personalizzazione dell’insegnamento è spinta all’estremo, come in una scuola carceraria. L’insegnamento si fonda su dei valori per essere efficace. E un buon insegnante insegna sempre prima con il cuore, e poi con la testa».

Tags:Aldo Pellegrino,arcivescovo,carcere,detenuti,Don Bosco,Ferrante Aporti,giovani,gruppo scultoreo,Longhi,minorile,Nosiglia,Pappalardo,Picco,scultore,statua

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