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Don Mazzi, i cani e una Chiesa che mi ha rotto

Creato il 21 ottobre 2011 da Alphaville

“Tanto ci sarà sempre, lo sapete, [...] un prete /
a sparare cazzate”

(F. Guccini, “Avvelenata”)

Non so bene cosa insegnino nei seminari cattolici e alla facoltà di Teologia della Pontificia Università, e soprattutto non so come insegnino la filosofia: già in Cattolica, ai miei tempi (che non sono poi quelli dei roghi in piazza) l’esame di Storia della filosofia moderna era bizzarramente selettivo — Telesio e Cusano si saltavano a piè pari; Bruno e Campanella non li si nominava neppure, brutti ereticacci; se proprio volevi, potevi portare in lettura i testi di Eugenio Garin su Umanesimo e Rinascimento ma nulla garantiva che ti ci avrebbero fatto almeno una domandina piccola piccola. In Storia della filosofia contemporanea, invece, la triade sulfurea Marx-Nietzsche-Freud veniva sbrigata rapidamente, recuperandone soltanto qualche lacerto da strumentalizzare ad maiorem Dei gloriam.

Però Wittgenstein lo studiavamo, eccome. E studiavamo la famosa Proposizione 7 dell’Introduzione al Tractatus logico-philosophicus: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» — norma aurea così spesso disattesa e comunque largamente ignorata.

Nella categoria dei largamente ignoranti (la Proposizione 7, dico) sono lieta di far rientrare a buon diritto don Antonio Mazzi, che forse a Ferrara negli anni Cinquanta non ha studiato Wittgenstein, o forse non se lo ricorda. Perché don Mazzi, nella sua rubrica “Secondo coscienza” (su un numero di “Gente” degli inizi di ottobre, chiedo scusa per l’inconsueta imprecisione) si occupa dei “cattivi esempi” che “distruggono la normalità”. E sia. Non si capisce, però, perché verso la fine del suo scritto don Mazzi debba concludere: «Le battaglie vere, oggi, pare siano altre: i diritti dei cani, le barche dell’America’s Cup, i capricci dei nostri onorevoli».

Ma di che parla, don Mazzi? Ma che ne sa, lui, dello scempio quotidiano di milioni di senzienti non umani? Lui che ha come referente ultraterreno un dio che dice a Mosè: «Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto, starà sette giorni sotto la madre; dall’ottavo giorno in poi, sarà gradito come vittima da consumare con il fuoco per il Signore» (Levitico 22,27); e come referenti terreni personaggi siffatti — un papa che così si rivolge ai macellai del mattatoio di Roma: «per divina disposizione i minerali serviranno le piante, le piante serviranno gli animali, gli animali l’uomo: affinchè attraverso l’uomo tutti servano Dio. Ma l’uomo, per servirsi degli animali, deve spesso — purtroppo — farli soffrire, deve spesso ucciderli; nulla è dunque per sè di riprovevole in questo. Certamente dovranno essere ridotte al minimo le sofferenze, interdette le inutili crudeltà (abbiamo letto, per es., che nel mattatoio si ha particolare cura che il bestiame vivo non si incontri con coloro che trasportano le carni), ma non vi è nemmeno posto per ingiustificati rammarichi. I gemiti delle bestie abbattute e uccise per giusto motivo non dovrebbero destare una tristezza maggiore del ragionevole, mentre non ne procurano i colpi del maglio sui metalli roventi, il marcire dei semi sotterra, il gemere dei rami al taglio della potatura, il cedere delle spighe all’azione dei mietitori, il frumento che viene stritolato nella macina da mulino»; e un cardinale che si compiace dell’angoscia e della morte di una bestia:

Don Mazzi, i cani e una Chiesa che mi ha rotto

Non spreco tante altre parole, e mi limito a dirgli, a don Mazzi, quello che ho già detto al suo correligionario don Salvatore Cerruto: «Limitatevi a parlare di quel che sapete, se lo sapete, e non curatevi di ciò che per voi non è — a prescindere — degno di considerazione; lasciate che siamo noi poveri peccatori incalliti e soddisfatti del nostro peccare a preoccuparci delle sorti dei viventi non umani. Voi continuate pure ad occuparvi di anime e lasciate che ai corpora vilia pensiamo noi: ci interessa l’aldiqua, l’aldilà è tutto vostro».


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