Quando sono partita, venerdì scorso, doveva esserci uno sciopero di Trenitalia. Poi forse c’era, forse no, non l’ho ben capito. Non mi sono mai chiari gli scioperi di Trenitalia, li capisco ancora meno degli scioperi della fame intermittenti di Pannella. Io, ovviamente, sono favorevole alla pratica dello sciopero. Penso però che, se si decide di rifiutarsi di lavorare per ottenere condizioni migliori o per proteggere la società da una minaccia grave, bisogna dire chiaramente il problema qual è. Bisogna comunicarlo alle persone a cui lo sciopero crea dei problemi, e andare avanti a oltranza finché non si ottiene almeno in buona parte quello che si chiede. Come hanno fatto a Genova. Hanno bloccato la città finché il sindaco ha ceduto. Gli scioperi dei treni, invece, sono sempre molto parziali. La maggior parte dei treni è garantita, ma non è che lo si sa subito, lo si scopre solo vivendo, man mano che il tempo scorre e i cartelloni danno notizie. Non si vede mai un picchetto, un volantino, un megafono, per il viaggiatore è impossibile avere la certezza che il servizio sarà interrotto, figurarsi sapere il perché. Sono scioperi impalpabili che finiscono subito e danno l’impressione di lasciare tutto come prima. Fare gli scioperi così è solo fare dispetti a chi si sposta, non ritenendolo neanche degno di una spiegazione. Avete un problema? Bene: che i treni non partano più finché non lo avete risolto. Ci sto. Però fateci sapere qualcosa. Convincete anche noi.
Mentre passeggiavo a Santarcangelo di Romagna ho scoperto una piccola stanza che ospita un Museo dei Bottoni. Come ho già scritto in passato, io sono affascinata dalla storia della moda. Se la si sa leggere, la moda nei secoli racconta come una società si evolve, i suoi valori, i rapporti tra i sessi e le classi, l’economia, i commerci, la filosofia. Mi piace anche l’idea che attraverso un dettaglio si possa vedere il tutto – ricordo ancora un articolo pubblicato su Internazionale qualche anno fa che parlando di una partita di paperelle da vasca da bagno rovesciata nell’oceano riusciva a descrivere lo stato del nostro pianeta. Nel piccolo Museo dei Bottoni l’anziano collezionista spiegava i pezzi più notevoli, pazientemente e vivacemente, e i bottoni che ci mostrava parlavano della Rivoluzione Francese, della Guerra Fredda, degli anni di piombo, dell’Estremo Oriente, dell’Olocausto… Alcuni bottoni erano dei veri capolavori: smalto, intarsio, lavorazioni finissime, sottilissimi dipinti… Se passate per quella parte di Romagna, vi consiglio una visita.
Il 20 novembre invece ero a Roma, dove era prevista una manifestazione congiunta di No Tav e movimenti per la casa. Avrete sentito tutti dell’attacco alla sede del Pd, degli scontri, la solita solfa. Siccome io c’ero, vi racconto cosa ho visto, che non è l’opposto di quello che hanno raccontato i media, ma una cosa proprio diversa, con altre dinamiche e un altro significato.
Sono arrivata a Campo de’ Fiori con un certo anticipo. Pare che fosse stato consigliato di chiudere gli esercizi commerciali, e i bar che ho trovato aperti nelle vie laterali non sembravano avere spazio dentro o non mi piacevano, per cui mi sono rassegnata a bere un tè in un bar direttamente nella piazza. Cinque euro per un tè e qualche biscotto: già questo meriterebbe una protesta a sé.
Man mano che arrivavano i manifestanti, il bar toglieva sedie e tavoli e si preparava alla chiusura. Ma era tutto tranquillo. Io mi sono spostata verso il monumento centrale, dove una loquace signora piemontese spiegava a un intervistatore dietro l’altro le ragioni della protesta. Anch’io sono stata intervistata da La7. Nel telegiornale di quella sera non hanno mostrato né me né lei, ma pare che abbiano solo parlato degli scontri, commentati da un pippone di Mentana. Non so cos’abbiano fatto gli altri media, ma immagino lo stesso: avranno raccolto un sacco di interviste intelligenti (la mia non era particolarmente illuminante, ma i no tav ne avevano di cose da dire), e non le avranno usate, per poi fare audience con le solite immagini di manifestanti vs polizia.
Io non so se la manifestazione fosse stata autorizzata a lasciare la piazza, ma suppongo di no. Guai a lasciare che disturbassimo Letta e Hollande. Quindi dopo un po’ eravamo tutti ammassati lì dentro, in Campo de’ Fiori, giovani romani e no tav, circondati dalla polizia su tutti i lati. Si poteva uscire individualmente, ma non in gruppo: eravamo bloccati. Ci sorvolava un elicottero.
Quello tra manifestanti e polizia è ormai un gioco delle parti, quasi un rituale. Per quello, in un certo senso, non importa se la manifestazione era autorizzata o no a uscire dalla piazza, se hanno tirato prima i fumogeni i manifestanti (come mi sembra sia accaduto) oppure i poliziotti caricato. È come il calcio di inizio della partita: quasi una formalità.
La situazione è questa: la gente, in Italia, è scontenta per le difficoltà che si trova ad affrontare, a causa soprattutto di decenni di corruzione e mala gestione. Che sia colpa dei cittadini stessi non si può negare, ma data l’ignoranza di molti italiani che malvotano e date le storture del nostro sistema democratico, alle volte la protesta di piazza è l’unico modo, o è percepito come l’unico modo, per farsi sentire. Aggiungo però che spesso le persone che protestano non fanno solo quello: fanno politica dal basso. Occupano edifici vuoti, fanno informazione, offrono assistenza a chi è in difficoltà, propongono alternative. E poi manifestano, cercando di farsi sentire, vocalmente o fisicamente, dal potere. La polizia protegge quel potere: sgombera, manganella, contiene, arresta. Molto spesso usa una forza eccessiva; inoltre contiene al suo interno meccanismi vergognosi di auto protezione anche in caso di crimini, e un fascismo che i decenni e la coscienza del paese non riescono a estirpare. La polizia difende con i propri corpi il potere, e lo fa con violenza gratuita: è il nemico. Per cui la si attacca. Anche se “non sono tutti così”. Anche i manifestanti non sono tutti “così”, ma le manganellate le prendono lo stesso.
Si è deciso, dunque, di provare a rompere l’accerchiamento e di uscire da una delle vie laterali della piazza. I poliziotti (le guardie, come li chiamano), non ci lasciavano passare. Allora si è provato da un’altra parte. Inneggiando alla val Susa o contro gli sgomberi ci siamo pigiati tutti in un’altra via, quella dove c’era una sede del Pd, cercando di spingere da quel lato. Mia sorella mi ha consigliato di legarmi i capelli. Non avevo il casco; davanti sta solo chi ha il casco o chi è molto temerario. Vedevo fumo provenire dalla direzione dove c’era la polizia, rumore, non capivo cosa succedesse. Ad un certo punto sentiamo dire: “indietro, piano!”. Non bisogna farsi prendere dal panico e travolgere chi sta dietro.
La polizia aveva caricato.
Attraverso il fumo ho visto qualcuno che cercava di arrampicarsi su un muro, non so se per proteggersi o per fare danni. Sentivo grida e rumore di cose che battono. Tenevo d’occhio mia sorella e le persone che conoscevo. A me non piacciono gli scontri. Tanti manifestanti invece li vogliono: pensano che se ci sono scontri allora il potere ha paura e li deve ascoltare. Io non so come funziona esattamente: di sicuro, quando la piazza si fa sentire chi decide deve cedere. Ancora una volta, pensate a Genova. Però il risultato non è garantito.
A detta dei manifestanti, quel pomeriggio non è successo granché. Qualche carica, niente di grave. Siamo rimasti bloccati nella piazza ancora delle ore; per fortuna a Roma fa caldo e quel giorno non pioveva. A spese dei contribuenti, un elicottero continuava a sorvolarci, e quando il faro passava su di noi la gente gli mostrava il dito.
Alla fine la polizia ci ha fatti passare. Questo dimostra che è davvero come un gioco, uno sport, oppure una guerra, o una lotta tra animali nella foresta: tu mi blocchi, io ti spingo, mostriamo i muscoli, e se ti ho convinto trattiamo. Il risultato della trattativa è stato che la polizia ci ha scortato mentre sfilavamo in una via di Roma, bloccandola. Letta e Hollande erano da tutt’altra parte, ma la città avrà sentito.
La sera i giornali parlavano solo dell’assalto alla sede Pd, di cui io non mi ero nemmeno accorta. Il terribile attacco consisteva semplicemente in qualche sfregio alla loro targa fuori e al portone. Per carità, potevano anche fare a meno di farlo, ma l’episodio è stato oltremodo ingigantito, tanto da far meritare ai manifestati l’epiteto di fascisti da Cuperlo, quello “di sinistra” del Pd. Egocentrici. La sera abbiamo guardato un paio di volte, per divertirci, questo video: un’ottima rappresentazione di quanto il Pd sia ridicolo. Questa radical chic di militante si atteggia ad eroina per aver difeso una targa (come non si capisce, visto che dice di non aver ancora visto i danni alla bacheca) mentre dei manifestanti venivano manganellati a pochi passi da lei. Con lezioso smarrimento da signora per bene si fa vedere incredula nei confronti di un “odio” esagerato e incomprensibile che in realtà è comprensibilissimo, perché nasce da una sofferenza reale e da sequenze lunghissime di ingiustizie di cui il partito in cui lei milita (e per questo non dovrebbe essere così ingenua) è corresponsabile se non esecutore.
Chi insiste per la Tav contro ogni protesta e ogni argomentazione razionale? Chi autorizza i palazzinari a devastare Roma accumulando enormi profitti mentre le famiglie non hanno una casa in cui vivere? Chi non fa niente per ridurre i costi della politica, chi cementifica il territorio, chi governa con il partito di Berlusconi, chi taglia le tasse ai ricchi e condona multe milionarie mentre l’Italia è l’unico paese in Europa, salvo la Grecia, a non garantire un reddito minimo?
Il Pd.
Frignare per una targa imbrattata quando il paese è in uno stato simile di sofferenza, di rabbia e di prostrazione dimostra l’abisso che separa queste persone dalla popolazione a cui chiedono i voti e un mandato per governare.
E ora che ci penso, se un tè a Campo de’ Fiori costa cinque euro, chissà una sede.
Meno male che ci sono i no tav, con la loro tenacia, la loro solidarietà e coesione, la loro fierezza e il loro senso pratico, a dare un esempio di lotta e a portare solidarietà a tutte le buone cause di questo paese. Meno male che ci sono anche quelli che occupano le case, anche se non mi piace il loro atteggiamento in piazza, spesso bellicoso e attaccabriga. Però stanno dalla parte della ragione. Perché interi palazzi devono rimanere vuoti mentre le persone hanno bisogno di una casa? Se il mercato non funziona, perché c’è chi è troppo ricco persino per vendere o perché i prezzi sono impossibili, è giusto prenderseli, quegli spazi.. Sottolineo che non sono mai case di individui, sempre di enti o costruttori.
Mentre ero a Roma stavo in una stanza in un’occupazione. Era una vecchia sede dell’INPDAP, che gli occupanti in un certo senso conservano, mantenendo l’edificio in uno stato migliore dell’abbandono, evitando che si trasformi in un palazzo pericolante nel cuore di Roma. Le pareti sono colorate, le stanze grandi, ma una o al massimo due per famiglia, senz’acqua né gas, per cui bisogna arrangiarsi. Il bagno è in comune e le pulizie si fanno a turno. Per andarci a vivere bisogna chiedere e presentarsi; ogni singolo o famiglia è obbligato a partecipare a un certo numero di picchetti e manifestazioni per portare avanti la causa comune, pena l’espulsione. Alla fine, io pensavo, anche i ribelli devono avere le loro leggi.