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Due domande a Fabio Geda.

Creato il 17 aprile 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Oggi ho la fortuna di poter proporre un’intervista a un personaggio fondamentale nella letteratura italiana e piemontese degli ultimi anni. È di Torino, è uno scrittore –ma non solo-, ha creato storie che sono dei piccoli armadi di Lewis: la mia intervista (via web, un mini viaggio delle parole dalla tratta Torino-Colombia) a Fabio Geda.

Il libro, Nel mare ci sono i coccodrilli, è stato un po’ una scommessa. È una narrazione di una storia vera, quella di Enaiatollah Akbari, insieme drammatica e di una bellezza sconvolgente, riassunta, dialogata, fatta divenire libro. Come ha conosciuto il piccolo protagonista e come è nato questo racconto?

Ho incontrato Enaiat nel 2007 durante una presentazione del mio primo romanzo “Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani”. Il protagonista di quella storia era un ragazzino romeno, Emil, che viaggiava per l’Europa in cerca di suo nonno. Il Centro Interculturale di Torino, che mi aveva invitato quella sera, mi affiancò un ragazzo afghano che davvero aveva viaggiato da solo per molti anni e l’idea era che la sua testimonianza facesse da controcanto alla mia storia inventata (perchè di fiction, in quel caso, si trattava). Ovviamente, quel ragazzo era Enaiat. Ricordo di essere rimasto molto colpito dalla leggerezza e dalla ironia con cui raccontava il suo dramma, e ricordo di aver pensato che con quella leggerezza e quella ironia, forse, una storia così violenta sarebbe potuta arrivare anche a dei lettori molto giovani. Il progetto è nato così: lui aveva voglia di parlare e raccontarsi, io di ascoltare e scrivere, cercando una sintesi utile a tenere incollato alla pagina anche il ragazzino più impermeabile alla parola scritta.

Una domanda che non si può non fare: prima di essere scrittore, era un educatore e un appassionato di viaggi. È impossibile non notare quanto i suoi libri devono a queste sue due passioni; e quindi chiederle come esse abbiano determinato la voglia di raccontare delle storie al pubblico. Da dove nascono le trame?

A dire il vero sono stato uno scrittore ben prima di essere un educatore e un appassionato viaggiatore. I miei primi tentativi di scrivere narrativa risalgono, credo, alle scuole medie, anche se il primo racconto che ho a casa e che testimonia la mia vocazione è quello che pubblicò il giornalino scolastico del liceo, quando facevo terza superiore. Detto questo, i miei libri – come si capisce anche dalla risposta precedente – nascono da una curiosità innata per (quasi) tutto e da una certa capacità di ascolto, affinata in anni di lavoro  educativo. In fondo cosa fa un educatore? Un educatore lavora con le storie dei suoi ragazzi. Tenta di ordinarle, di ripulirle, e di restituirgliele in modo che loro possano farci pace.

Nei suoi libri c’è un’altra costante di fondo: l’amore, spesso l’amore di un genitore verso il proprio figlio e del figlio verso il genitore. È proprio dal desiderio di liberare il papà che inizia la storia di Emil ne “Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani”, ed è un elemento che si trova anche in “Nel mare ci sono i coccodrilli” e “L’estate alla fine del secolo”. Che significato ha, e quanto è fondamentale l’amore per lei?

A parlare di amore si rischia sempre di far uscire qualche frase da Bacio Perugina. Potrei dire un sacco di cose banali che sono, allo stesso tempo, estremamente vere: che l’amore è al centro di ogni mio gesto, un amore che si declina in tante forme differenti: amicizia, passione, rispetto. Ma il centro di molto mio scrivere – che tu hai colpito con la domanda – più che l’amore è il rapporto intergenerazionale tra padri e figli, tra adulti e ragazzi, tra nonni e nipoti. Il passaggio delle consegne, il lascito di una generazione a un’altra, il maestro che accompagna il discepolo. Ecco, questo è quello che, per tanti motivi, mi ossessiona.

È un po’ ormai che è fuori dall’Italia, in un giro per l’America che è documentato dalle aue foto e dai suoi tweet. Come definirebbe questo momento della sua vita? Che progetti ha per il futuro?

Ho vissuto gli ultimi dodici anni della mia vita come se fossi stato sparato fuori da un cannone. Sono stati anni intensi, rapidissimi, estremamente densi. Ora sentivo forte il bisogno di fermarmi, di lasciar sedimentare i pensieri. E avevo anche una gran voglia (direi anche la necessità) di imparare l’inglese una volta per tutte. Così mi sono organizzato e, avendo l’incredibile fortuna di poterlo fare, mi sono regalato un anno che sto dedicando (sono oltre metà, ormai) alla formazione. Al vedere. Al mettere ordine.

Ultima domanda: quali sono i suoi scrittori preferiti, e quali generi hanno influenzato il suo stile? Che cosa significa per Fabio Geda scrivere?

Non ho degli scrittori preferiti, bensì dei libri preferiti. Libri che per motivi a volte misteriosi, altre volte evidenti, hanno lasciato in me delle tracce profonde. Penso a “Il mio nome è Asher Lev” di Chaim Potok, romanzo sull’identità e sull’arte. Penso a “La vita davanti a sè” di Romain Gary (ma pubblicato sotto lo pseudonimo Emile Ajar), in cui deflagrano vita, sogni e fantasie di un ragazzino maghrebino nella Belleville parigina degli anni settanta. Penso a “In fuga” di Alice Munro, dove il carotaggio della scrittrice canadese nelle vite dei suoi personaggi raggiunge profondità che mi lasciano senza fiato. Cosa significa per me scrivere? Be’, scrivo per tanti motivi diversi. Anzitutto perché mi fa stare bene. Poi perché, come ha detto Calvino, attraverso la scrittura posso rimettere in circolo idee e valori che reputo fondanti e che io stesso, a mia volta, ho assorbito dalla cultura in cui sono cresciuto, dalle mie esperienze e dalla letteratura che mi ha preceduto. Le società crescono così: assimilando esperienze e rimettendole in circolazione. Scrivo per tentare di capirmi: ogni libro é, tra le altre cose, un’indagine su me stesso, sul mio modo di stare al mondo. Scrivo perché amo il gesto antico del cantastorie che ammalia il pubblico. Scrivo perché sono sempre insoddisfatto di ciò che ho scritto in precedenza, e ogni nuovo libro si trasforma in un tentativo di riscatto, un modo per mostrare a me stesso che so fare di meglio.

Articolo di Miriam Barone.

fabio geda

Foto tomcorsan, licenza CC BY-NC-SA, modificata


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