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Due o tre considerazioni sulle politiche editoriali in materia di gialli

Creato il 20 febbraio 2011 da Dallenebbiemantovane

La stagione dei suicidi, di Ugo Mazzotta (Todaro Editore, 2009) mi è stato regalato il 5 febbraio 2011 dallo staff del festival Nebbia Gialla a Suzzara. C’era un mucchietto di libri, premi finali al termine di un divertente workshop di scrittura creativa gialla, e a me è capitato davanti... lui.
Per un attimo ho esitato: c’erano titoli meno scontati, ma ero disorientata. Tutti scrittori sconosciuti. Quasi tutti italiani. Nella mia avidità, volevo prenderne un paio; mi sono trattenuta.
E ho preso questo, pensando (senza motivo) che forse era un segno del destino.

Ho iniziato a leggerlo qualche giorno fa. Mai letto nulla di Mazzotta, che è un medico legale nato negli anni ’50 e dal 2006 collabora alla sceneggiatura della fiction tv Ris – Delitti imperfetti; mai letto niente dell’editore svizzero Todaro.

Ecco, sull’impaginazione qualche riserva ce l’avrei: righe troppo fitte, paragrafi senza spaziatura iniziale che rendono lievemente difficoltoso capire quando finiscono i dialoghi (distinguibili solo dalla lineetta iniziale, stile Einaudi) e quando inizia il seguito non dialogato.
A parte questo, La stagione dei suicidi è un dignitosissimo giallo, dal finale sorprendente, che consiglio agli amanti del genere, e credo proprio che ne cercherò altri di Mazzotta. Sul romanzo spenderò qualche altra parola più sotto, ma vorrei sottolineare quanto mi abbia aperto nuovi orizzonti partecipare a NebbiaGialla 2011.
Non c’ero mai stata, sapevo che era un festival alla sua seconda edizione, a basso budget, e quindi dedicato più a giallisti italiani che a stranieri. Sapevo che partecipavano anche scrittori di una certa notorietà (Varesi, la Oggero, Vichi...). Ho assistito a un interessante incontro con tali Blini, Marcialis e Gallico, coordinato dalla giornalista e scrittrice Adele Marini – gentilissima, era lei che organizzava il workshop – e da Paolo Umbriano.

Quel che non immaginavo era che ci fossero così tanti nuovi, giovani e meno giovani, giallisti italiani in circolazione. Non ho acquistato nulla sul posto per il semplice motivo che non ho soldi e quindi non compro libri da mesi: prendo tutto in biblioteca. Però ho sfogliato, aperto, letto righe e seconde di copertina a caso, mi sono segnata titoli e adesso ho un piccolo tesoretto da aprire quando il tempo lo consentirà.
Magari sono tutte schifezze, ma in linea di massima, da quel poco che ho sfogliato, non lo credo.
E lo conferma questa lettura: trama solida, stile scorrevole e brillante, protagonisti credibili, ottimi dialoghi che rendono bene il parlato e la provenienza geografica e culturale dei personaggi. Ho trovato un solo errore di ortografia in tutto il libro: un’ con l’apostrofo prima di un sostantivo maschile. Capita, capita ovunque, su libri e quotidiani (ne approfitto per scongiurare eventuali giornalisti che mi stessero leggendo: se parli di un uomo, va bene “gli”, se parli di una donna devi scrivere “le”. Coraggio, non è così difficile).

Mazzotta ha la mano ferma, anni di pratica alle spalle, e si sente. Comincia sicuro, prosegue approfondendo progressivamente le situazioni senza caricarle troppo all’inizio, ma diluendole con perizia.
Diversamente da quanto potremmo temere dato il curriculum, il suo non è un legal thriller che si svolge sul tavolo dell’anatomopatologo, se non quando è strettamente necessario. Il protagonista è invece un normale commissario di polizia, napoletano in Abruzzo, e l’ambientazione (gli appennini abruzzesi, che purtroppo non ho mai visto) è abbastanza insolita da offrire spunti nuovi, incuriosire e intrigare il lettore.
Faccio notare inoltre la copertina, di artista sconosciuto e vagamente goyana, molto inquietante, evocativa, legata alla trama e ai due misteri che ne sono al centro.

In definitiva, questo giallista semisconosciuto non solo non ha niente da invidiare a colleghi italiani più famosi e ormai miliardari, ma da certi punti di vista è anche superiore a qualcuno di loro.
E allora, come mai alla sua età è ancora un illustre sconosciuto? Come mai su Anobii, dove pure i giallomani non mancano e anzi sono numerosi i gruppi loro dedicati (es. Corpi Freddi, molto valido per scoprire gialli e thriller vecchi e nuovi di ogni provenienza), ciascuno dei suoi romanzi risulta posseduto da qualche decina di persone, non di più?
Probabile che la scarsa distribuzione e la scarsa promozione (Pat Walsh mi ha aperto gli occhi) siano le principali responsabili. Mi risulta che molti scrittori inizino con un piccolo editore, poi facciano il salto nella scuderia di uno grande e a quel punto ci saranno un ufficio marketing e un ufficio p.r. che lavoreranno anche per loro. Evidentemente a Mazzotta questa fortuna non è toccata, non è diventato uno scrittore di culto e non è diventato neanche uno scrittore di nicchia.

Però la cosa mi fa incazzare, e parecchio, non nella fattispecie ma come paradigma di una situazione diffusa.
Non sto dicendo che Mazzotta sia un genio o sia diventato di colpo il mio scrittore preferito; dico solo che, tanto per fare un nome, due mesi fa ho letto Il tailleur grigio di Camilleri e, tra refusi, incongruenze, cliché e stereotipi, non so da che parte fosse più criticabile. Però Camilleri è Camilleri, e qualsiasi cosa Camilleri scriva, va bene, anche per la sua casa editrice evidentemente, se gli pubblica roba senza neanche editarla.
Ma perché? Non pensano che farebbero un favore anche a Camilleri, oltre che alla propria immagine di editori, emendando i suoi testi da eventuali sviste?
Tra l’altro Camilleri e Mazzotta una cosa in comune ce l’hanno: la tv. Solo che per il primo, la serie tv Il commissario Montalbano ha fatto da volano alla vendita dei suoi libri, al secondo essere sceneggiatore di Ris non è servito assolutamente a nulla.

Più in generale, non pensano mai, i grandi editori, di investire un po’ meno nei cavalli sicuri, e un po’ di più in quelli meno sicuri? Di assumersi qualche rischio imprenditoriale dicendo al pubblico: il tale finora ha pubblicato con una piccola casa semisconosciuta, ma scrive da anni, ha talento, te lo dico io che sono una casa editrice seria e affermata, quindi ci puoi credere.
No. Preferiscono andare sul sicuro.

L’altra metà del budget finisce investita, naturalmente, nei casi editoriali, rigorosamente esordienti e possibilmente giovanissimi: un anno si chiamano Melissa P., un altro Paolo Giordano, o Silvia Avallone...
Nei gialli, adesso è il turno per esempio di Alessia Gazzola (L’allieva, che dalle recensioni che ho letto viene paragonato a chik-lit: a me non invoglia di sicuro) o dell’horror Il divoratore di Lorenza Ghinelli (il genere Stephen King non mi attira, quindi non lo leggerò e non darò alcun giudizio).
Si trova loro uno sponsor al di sopra di ogni sospetto (es. Sandrone Dazieri, che in sé è un ottimo autore noir, per Mondadori ha tessuto lodi entusiastiche di Licia Troisi, ormai miliardaria con le sue saghe fantasy: peccato che i conoscitori del fantasy la trovino meno che mediocre), si trova una copertina accattivante, si prenotano megaposter, adesivi da vetrina e spazi riservati nelle librerie e si incrociano le dita.
Il pubblico ci deve stare.

E infatti il pubblico, quasi sempre, ci sta. Perché il lettore medio non ha poi tutto ‘sto tempo per aprire, sfogliare, andare sui forum specializzati, farsi un’opinione libera, personale e autorevole.
È pigro, il lettore medio.
Tende a fidarsi, ed è su questo che contano le grandi case editrici.


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