Mettere nelle mie mani un albo di Dylan Dog è come dare un bicchiere di whiskey ad un ex-alcolista e sperare che non lo beva.
Nel migliore dei casi si struggerà, di fronte al liquido ambrato, perso nei ricordi di quanto dolce fosse farselo scendere in gola, ben conscio però di cosa ciò comporterebbe.
Ecco, questo per darvi un’idea di come mi senta adesso.
Con la differenza che di cose, dall’epoca, ne sono cambiate parecchie.
Prima di tutto urge una motivazione al perché, dopo tanti anni, sia tornato ad acquistare un volume del buon vecchio Indagatore dell’incubo.
Anzi due, ad essere precisi.
Il fattore scatenante è stata la promessa di un cambiamento nel mondo di Dylan, un rinnovamento segnalato dalla Bonelli stessa.
Come non udire il fascinoso richiamo, come rimanere indifferenti davanti a promesse così grandi?
E infatti non ho resistito e mi sono portato a casa i primi due volumi che ho trovato in edicola.
Uno di essi è l’uscita regolare, “Una nuova vita”, che però ho deciso che cercherò di dimenticare presto, visto che leggerlo mi ha provocato una sensazione simile allo sconforto e al disgusto. E comunque, nulla a che vedere con il misterioso cambiamento millantato dalla Bonelli.
Il secondo albo è proprio quello del titolo, il Color Fest numero 11.
Premetto, per anni sono stato un fan assatanato di Dylan Dog, testimoni sono i duecento e passa albi che ora riposano dentro una bella scatola in soffitta. Ma, come tutti gli amori di questo genere, arrivò il giorno in cui leggerlo non mi dava le stesse emozioni di un tempo. Vuoi per le storie, vuoi per i disegni, vuoi che sono cambiato io.
Fatto sta che senza alcun preavviso, smisi di leggerlo.
Ecco, aprire il volume e ritrovarmi in quattro storie una più bella dell’altra è stato complicato da gestire. Perché, come ho detto sopra, non può bastare questo a riportare in vita un amore ormai finito, soprattutto se metto a confronto i due albi acquistati: uno perfetto, o quasi, l’altro indegno e talmente brutto che non ho parole per descriverlo.
Ma le quattro storie che compongono il Color Fest sono, per dirla in poche parole, quello che amavo in Dylan.
C’è la morte, ci sono gli incubi, i poteri mentali e gli oggetti stregati, tutto accompagnato dalla classica sensazione, dalle atmosfere che hanno contribuito a rendere leggendario il personaggio bonelliano.
Unico difetto?
I colori.
Non sono mai stato un amante del Dylan a colori, e anche stavolta durante la lettura ho storto il naso più volte. Ma questo è andato in secondo piano, dopo aver notato il livello delle storie.
E vediamo se questo cambiamento riuscirà a alimentare quel poco di amore che pare nascondersi sotto la cenere.
Sarà dura, ma chissà…