Magazine Cultura

E basta

Creato il 12 novembre 2010 da Fabry2010

di Barbara Gozzi

… non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità dolorosa,
ma vera.
(G.L., 1832)

Dalla finestra scosta una tenda, il tessuto fa resistenza. Oltre il vetro unto, un sole stanco, i colori della caduta. Oltre c’è il giallo brillante, tracce sfumate di marrone, scaglie dure di verde, quel rosso fondo che s’intrufola ovunque. Oltre, c’è Giacomo che dalla finestra annusa.
Due gocce di essenza a intorpidire l’acqua. Una piccola candela accesa, da infilare nella bocca del vaso. Giacomo aspetta che la fiamma irradi tra quella bocca e gli occhi, aspetta.
Nella pancia cotone, e succhi gastrici a gonfiarlo, renderlo escremento da tirare fuori, timido, si nasconde tra le budella.
Posa i polpastrelli sul vetro, è freddo. Il naso lascia un’impronta da interpretare, meglio dimenticare. Ovunque silenzio poi un tonfo lontano. C’è qualcuno che sbatte contro l’opposto palmo d’intonaco. C’è sempre qualcuno da qualche parte, lontano.
Torna a fissare fuori, ormai se ne va presto, il sole, e si porta via questo giusto cadere tra il tutto e il niente. Una strizzata sotto lo sterno lo scuote. Giacomo si vede riflesso nel vetro unto, opaco. Un riflesso incerto, confuso, che restituisce forme inesistenti ricreate dalla superficie fredda.
Dalla finestra trattiene ogni cosa, s’intestardisce (foglie, amaro sulla lingua, cielo e sole, tristezza, non rumori, attese, naso ghiacciato, freddo, freddo, sempre più freddo). Tutto dentro, strizzato che c’è posto tra i fili di cotone, nel buco dello stomaco, è ora di riporre la tenda. Ora, quanto male fa muoversi, e quanto restare, non sa decidersi. Ora, lo si potrebbe scoperchiare, il buco, e tirargli fuori ogni invisibile filo di cotone, ma il dolore non se ne andrebbe.

Manca mezz’ora all’appuntamento con Chiara, al solito posto, nell’atrio laterale. Ma non potrà restare molto, l’aspettano per i corsi serali. Il vaso con la pancia lo comprò Chiara, è un diffusore, li chiamano così anche se sembrano vasi tozzi bucherellati da artisti isterici. L’atrio laterale è uno di quegli angoli che in pochi conoscono, tra i frequentatori dell’ospedale. È un quadrato dalle punte allungate spezzato dalle scale, proseguendo lungo il corridoio che affianca l’ingresso si arriva al bar interno, il vociare si sente spesso dall’atrio, diversamente c’è un cartellone con le indicazioni (dritto punto informazioni, sempre dritto pronto soccorso, a sinistra ginecologia e così via). Chiara sta al terzo piano, ma là su non ci vuole nessuno. Chiara non vuole mai nessuno salvo rare eccezioni, come stavolta. Parliamo, gli ha detto al telefono e a lui è sembrato si aprisse una voragine nel pavimento, uno di quei fenomeni che non ti spieghi, lo vedi succedere, ti convinci che c’è, e quando stai per lanciarti sparisce. Al centro linguistico gli hanno fatto un contratto trimestrale, poi si vedrà han detto in segreteria quando in settembre hanno formalizzato la sua assunzione. Il centro è una struttura privata, i corsi sono tutto un fiorir d’incastri tra materie e professionismi, inglese criminologo, cinese commerciale, tedesco statistico, francese e qualcosa che ora non ricorda. Giacomo ha quarantasette anni, un metro e settanta per quasi novanta chili ma quando stava con Chiara pur essendo un ometto basso per la media e le mode aveva un figurino discreto, andava a correre due volte a settimana con Pietro e Graziano che abitano ancora nel suo stesso quartiere e hanno fatto il liceo nella stessa disgraziata classe. Poi c’erano anche quelle settimane che non usciva di casa, aspettava che il suo corpo tornasse a funzionare come sempre, ma erano brevi parentesi, le stessi brevi parentesi con cui convive da quando aveva dieci anni. Chiara se ne sta seduta sul terzo gradino della scala, l’atrio è come sempre deserto, arteria dimenticata. Chiara non dice niente. Giacomo non riesce a trattenersi, non gli è mai riuscito, allora le chiede (come va – come stai – sei stanca – vuoi un tè – c’è qualche novità). A Chiara collo, spalle e testa si muovono appena, risposte che le devono sembrare comprensibili. Giacomo se le fa bastare, continua a restare impigliato nella ragnatela dei non detti non capiti non definiti. Il cellulare vibra. Sono le otto meno dieci, è tempo di raggiungere il vecchio palazzo dove si tengono i corsi. Giacomo si perde a spiegarle di facce ridicole e materie Frankenstein. S’immagina che l’accenno di sorriso all’angolo della sua bocca sia vero, spontaneo, come quella volta a Venezia quando le schizzava acqua nella schiena. Giacomo s’immaginava tante cose, prima che lei si ammalasse, prima che in casa mancassero i rumori, prima che lentamente ogni cosa si sfaldasse (quelli della società di traduzioni non sanno niente di lui, di Chiara, solo dovevano ridurre il personale e con l’estate hanno smesso di mandare commesse, di chiamare, hanno smesso e basta). Ma le immaginazioni di Giacomo non erano poi gran cosa. Mettere due pentole sul fuoco e sentirla brontolare (anche se Chiara non era ancora in casa, ma Giacomo sapeva, immaginava, che l’avrebbe fatto, avrebbe brontolato per il casino e lo sporco). Comprarle uno di quei libri strani, le teorie del tal sociologo in novecento pagine e vederle quella luce negli occhi che la rendeva bella, più bella di ogni altra bellezza famosa da tappeto rosso. Non erano poi grandi immaginazioni, per l’appunto, ma quando sono evaporate gli è sembrato di aver perso un pezzo di gomito o un polpaccio. Chiara si alza dal gradino, torna in reparto, al suo letto. Aveva detto parliamo. Aveva anche detto proviamo, starò meglio. Ma ancora non sembra ci sia niente da dire e fare. Giacomo esce e si affretta, il centro linguistico non è lontano dall’ospedale, spera di non arrivare per ultimo, non in ritardo ma per ultimo quando tutti sono già in classe e lo guardano affamati. La mattina Giacomo sa comunque dove andare, che fare, pagare bollette, negozi, giornalaio, biblioteca, posta, parco. La sera va al centro, fa le lezioni concordate, cinque giorni su sette, arriva presto la mezzanotte anche di sabato e domenica, il tempo serale corre veloce, tra radio e televisore senza volume. Ma il pomeriggio non gli lascia scampo. Il pomeriggio, ascoltando il silenzio, aspettando, non capendo, pensando ancora e ancora; di pomeriggio non può ignorarla quella parte di corpo mancante, la parte centrale, l’addome-tutto comprendendo anche stomaco e reni. Quella parte lì Giacomo non c’è l’ha più e quando il vuoto prende a farsi sentire vorrebbe toglierselo, affondarci le mani nude e strappare con quanta forza ha. Ma ancora non gli è riuscito di farlo. Come si afferra il vuoto? Come si fa a toglierselo da dentro e lanciarlo così lontano da non sentirlo nemmeno negli echi? Giacomo se lo ricorda com’era tenersela stretta prima che lei uscisse, la mattina presto, per andare al lavoro. Ricorda i viaggi, certe malinconie improvvise, stare a letto nudi sotto strati di coperte a fare le colle. Ricorda i litigi contorti, le rabbie che mischiavano oggetti e corpi senza precise logiche, mischiavano e basta. Fino alle interruzioni, quando lui non chiedeva e lei non diceva, o viceversa, un perfetto senso unico alternato con semaforo. La lezione procede come sempre, torna a casa vagamente stordito, non è sicuro di averla vista, Chiara, di esserci andato davvero nel solito posto. Non è successo niente. La finestra sta sempre lì. Il vuoto silenzioso anche. Ha dimenticato il latte sul lavello, lo butta senza pensarci. Lo fa e basta. Si sveste, s’infila a letto, chiude gli occhi e basta.

Anche Chiara chiude gli occhi ma non dorme, quasi mai dorme davvero. Rivederlo le deve bastare, è l’unica cosa stupefacente che può permettersi, l’unica che ha controindicazioni gestibili. Dure ma gestibili. Certo, un abbraccio. Un abbraccio è tutt’altro mondo e a Chiara torna quella paura ruvida che tappa il cervello, lo rende bollicine. Abbracciarlo è sentire, ricordare, essere, annusare, trattenere, aderire. Abbracciarlo può essere ritorno o addio. Chiara sa cosa può essere, una banalissima stretta la riporterebbe dove non può andare, dove non saprebbe come dire. Che lo ama e non lo ama perché è su ciò che resta, di sé, che deve concentrare energie. Deve sforzarsi di non guardare lontano e se arriva il vortice lasciarsi risucchiare, ma da sola. Da sola non c’è lo sforzo di trovare parole, di dare dimensioni a concetti, di collegare pensieri e gesti. Da sola il male è suo, che se la divori o la cuocia a fuoco lento, resta l’idea, di poter trattenere il caos, il vortice di cose incomprensibili che le impediscono di capire, amare, volere, camminare. Chiara non ci crede al coraggio. Il più delle volte è semplice e anche un po’ sano egoismo. Anche Giacomo è malato. Le sue cellule non legano bene con una famiglia di proteine e altri parenti del genere. Allora gli gira il mondo, se ne sta immobile alcuni giorni poi passa. I corpi tradiscono, il suo e quelli degli altri. Solo che per Giacomo è normale, quel sottile pessimismo aleggiante, quel sapere che a un certo punto le foglie si fanno scure e cadono, finiscono calpestate e si decompongono. Chiara l’ha scoperto da poco, che la felicità non è uno degli ingredienti base del vivere. I corpi sono freni indisciplinati, si mettono in azione in autonomia e non sentono ragioni. Solo le menti però, possono prendere quello che c’è e farne qualcosa. Impastano, smattarellano, cuociono. E in quella di Chiara gli interruttori non funzionano come dovrebbero, si dev’essere manomesso il contatore generale o magari è saltato il salvavita. Succede. Quando si eccede la potenza consentita quello salta e allora bisogna scendere in cantina e alzare delle levette. Chiara non ci va mai, in cantina. A occhi chiusi, nel buio della stanza. Si piega sul fianco destro, verso la finestra dalle tapparelle abbassate. Ingoia un grumo di saliva. Le mani si stringono a pugno, involontariamente. Tiene gli occhi chiusi. Non dorme e basta.

Se ne stavano una addosso all’altro. Giacomo storto sul letto, una spalla sul cuscino, l’altra ruotata per permettere al braccio di piegarsi all’indietro e la mano a raggiungere quella di Chiara stringendola piano. I seni di lei contro la schiena di lui, bacino incollato a sedere. Il tutto sotto il piumone, i nasi a far capolino. Se ne stavano così quando Chiara gli ha detto Ti amo. Gliel’ha detto a bassa voce, lentamente. Giacomo ha aspettato, aveva sonno, si sentiva intorpidito ma tranquillo. Le ha sentito la mano molle, quella stretta nella sua aveva smesso di tenere le dita intrecciate, lei dormiva. Si è voltato attento a non svegliarla, cambiando l’incastro-colla tra loro. Coi seni sul petto le ha posato le mani tra le natiche senza premere, appena un accenno, delicato. Anch’io, ha pensato Giacomo baciandole il mento. Non si sono guardati, appena due parole dette e due pensate. Ma si sono tenuti così stretti che i corpi finivano e iniziavano in un miscuglio contorto. I corpi si tenevano. In quel momento si tenevano. E basta.

Sul letto lo zaino, tra le lenzuola sfatte. L’armadietto aperto a nascondere la sagoma di Chiara. Entra la dottoressa, spiega, posa sul letto documenti e buste chiuse. Chiara annuisce sistemando l’anta, sbirciando dentro lo zaino nero e viola. Poche cose, ricambi, libri, cellulare e portafoglio. La dottoressa ha i capelli corti, rossi, le chiede se gliel’ha detto. Chiara non racconta, di sé, non chiede ma ascolta. Solo che quando si sta lì, nel mezzo delle cose, senza avercela la certezza di come si uscirà, è impossibile non dire di sé. La dottoressa sa di Giacomo il necessario a zittire la coscienza psicologa e vagamente narrativa che si sviluppa in posti come quello. Quando le fa segno di no con la testa, la donna si appoggia all’estremità del letto.
«Dove andrai allora?»
«Forse a casa dei miei, su in montagna. Forse torno all’appartamento. Ancora non so»
«È una buona notizia»
«Non ho detto il contrario»
«Ma lui non lo sa»
«L’ho chiamato, è venuto ieri. Solo che poi»
«Cos’è che non va?»
«Non riesco a sentirmi felice»
«Non dovresti. Se non lo sei, intendo»
Chiara posa lo zaino per terra, sistema le coperte meglio che può, la dottoressa non accenna a volersi spostare dall’angolo del letto, sopra la coperta marrone di lana infeltrita.
«Se non ci vuoi andare, da lui, non farlo»
«Non sono sicura»
«Fra sei mesi ti aspettiamo, hai tutto qui dentro»
Chiara s’infila il cappotto, non se lo abbottona. Afferra lo zaino, lo trattiene con le dita, se lo trascina verso l’uscita. La dottoressa non si muove, la osserva senza espressione.
«Non si guarisce» Silenzio.
«Mai abbastanza per stare bene come vorremmo» Si alza e la raggiunge sulla soglia della porta. Il corridoio è stranamente poco rumoroso.
Provare qualcosa per qualcuno non vuol dire stare bene. Si stupisce Chiara, di aver rischiato seriamente di dirlo ad alta voce. E di pensarlo. Amare non dà meno dolore. Certi tatuaggi non sono trasferibili.
La dottoressa sorride, «Sei una delle pazienti più faticose che io ricordi»
«Grazie» È tutto faticoso in fondo, comunque lo è.
E basta.

Dalla finestra scosta una tenda, il tessuto fa resistenza. Oltre il vetro unto, un sole stanco, i colori della caduta. Oltre c’è il giallo brillante, tracce sfumate di marrone, scaglie dure di verde, quel rosso fondo che s’intrufola ovunque. Oltre, c’è Giacomo che dalla finestra annusa.
Due gocce di essenza a intorpidire l’acqua. Una piccola candela accesa, da infilare nella bocca del vaso. Giacomo aspetta che la fiamma irradi tra quella bocca e gli occhi, aspetta.
Nella pancia cotone, e succhi gastrici a gonfiarlo, renderlo escremento da tirare fuori, timido, si nasconde tra le budella.
Posa i polpastrelli sul vetro, è freddo. Il naso lascia un’impronta da interpretare, meglio dimenticare. Ovunque silenzio poi un tonfo lontano. C’è qualcuno che sbatte contro l’opposto palmo d’intonaco. C’è sempre qualcuno da qualche parte, lontano.
Torna a fissare fuori, ormai se ne va presto, il sole, e si porta via questo giusto cadere tra il tutto e il niente. Una strizzata sotto lo sterno lo scuote. Giacomo si vede riflesso nel vetro unto, opaco. Un riflesso incerto, confuso, che restituisce forme inesistenti ricreate dalla superficie fredda.
Dalla finestra trattiene ogni cosa, s’intestardisce (foglie, amaro sulla lingua, cielo e sole, tristezza, non rumori, attese, naso ghiacciato, freddo, freddo, sempre più freddo). Tutto dentro, strizzato che c’è posto tra i fili di cotone, nel buco dello stomaco, è ora di riporre la tenda. Ora, quanto male fa muoversi, e quanto restare, non sa decidersi. Ora, lo si potrebbe scoperchiare, il buco, e tirargli fuori ogni invisibile filo di cotone, ma il dolore non se ne andrebbe.

Manca mezz’ora all’appuntamento con Chiara, al solito posto, nell’atrio laterale. Ma non potrà restare molto, l’aspettano per i corsi serali. Il vaso con la pancia lo comprò Chiara, è un diffusore, li chiamano così anche se sembrano vasi tozzi bucherellati da artisti isterici. L’atrio laterale è uno di quegli angoli che in pochi conoscono, tra i frequentatori dell’ospedale. È un quadrato dalle punte allungate spezzato dalle scale, proseguendo lungo il corridoio che affianca l’ingresso si arriva al bar interno, il vociare si sente spesso dall’atrio, diversamente c’è un cartellone con le indicazioni (dritto punto informazioni, sempre dritto pronto soccorso, a sinistra ginecologia e così via). Chiara sta al terzo piano, ma là su non ci vuole nessuno. Chiara non vuole mai nessuno salvo rare eccezioni, come stavolta. Parliamo, gli ha detto al telefono e a lui è sembrato si aprisse una voragine nel pavimento, uno di quei fenomeni che non ti spieghi, lo vedi succedere, ti convinci che c’è, e quando stai per lanciarti sparisce. Al centro linguistico gli hanno fatto un contratto trimestrale, poi si vedrà han detto in segreteria quando in settembre hanno formalizzato la sua assunzione. Il centro è una struttura privata, i corsi sono tutto un fiorir d’incastri tra materie e professionismi, inglese criminologo, cinese commerciale, tedesco statistico, francese e qualcosa che ora non ricorda. Giacomo ha quarantasette anni, un metro e settanta per quasi novanta chili ma quando stava con Chiara pur essendo un ometto basso per la media e le mode aveva un figurino discreto, andava a correre due volte a settimana con Pietro e Graziano che abitano ancora nel suo stesso quartiere e hanno fatto il liceo nella stessa disgraziata classe. Poi c’erano anche quelle settimane che non usciva di casa, aspettava che il suo corpo tornasse a funzionare come sempre, ma erano brevi parentesi, le stessi brevi parentesi con cui convive da quando aveva dieci anni. Chiara se ne sta seduta sul terzo gradino della scala, l’atrio è come sempre deserto, arteria dimenticata. Chiara non dice niente. Giacomo non riesce a trattenersi, non gli è mai riuscito, allora le chiede (come va – come stai – sei stanca – vuoi un tè – c’è qualche novità). A Chiara collo, spalle e testa si muovono appena, risposte che le devono sembrare comprensibili. Giacomo se le fa bastare, continua a restare impigliato nella ragnatela dei non detti non capiti non definiti. Il cellulare vibra. Sono le otto meno dieci, è tempo di raggiungere il vecchio palazzo dove si tengono i corsi. Giacomo si perde a spiegarle di facce ridicole e materie Frankenstein. S’immagina che l’accenno di sorriso all’angolo della sua bocca sia vero, spontaneo, come quella volta a Venezia quando le schizzava acqua nella schiena. Giacomo s’immaginava tante cose, prima che lei si ammalasse, prima che in casa mancassero i rumori, prima che lentamente ogni cosa si sfaldasse (quelli della società di traduzioni non sanno niente di lui, di Chiara, solo dovevano ridurre il personale e con l’estate hanno smesso di mandare commesse, di chiamare, hanno smesso e basta). Ma le immaginazioni di Giacomo non erano poi gran cosa. Mettere due pentole sul fuoco e sentirla brontolare (anche se Chiara non era ancora in casa, ma Giacomo sapeva, immaginava, che l’avrebbe fatto, avrebbe brontolato per il casino e lo sporco). Comprarle uno di quei libri strani, le teorie del tal sociologo in novecento pagine e vederle quella luce negli occhi che la rendeva bella, più bella di ogni altra bellezza famosa da tappeto rosso. Non erano poi grandi immaginazioni, per l’appunto, ma quando sono evaporate gli è sembrato di aver perso un pezzo di gomito o un polpaccio. Chiara si alza dal gradino, torna in reparto, al suo letto. Aveva detto parliamo. Aveva anche detto proviamo, starò meglio. Ma ancora non sembra ci sia niente da dire e fare. Giacomo esce e si affretta, il centro linguistico non è lontano dall’ospedale, spera di non arrivare per ultimo, non in ritardo ma per ultimo quando tutti sono già in classe e lo guardano affamati. La mattina Giacomo sa comunque dove andare, che fare, pagare bollette, negozi, giornalaio, biblioteca, posta, parco. La sera va al centro, fa le lezioni concordate, cinque giorni su sette, arriva presto la mezzanotte anche di sabato e domenica, il tempo serale corre veloce, tra radio e televisore senza volume. Ma il pomeriggio non gli lascia scampo. Il pomeriggio, ascoltando il silenzio, aspettando, non capendo, pensando ancora e ancora; di pomeriggio non può ignorarla quella parte di corpo mancante, la parte centrale, l’addome-tutto comprendendo anche stomaco e reni. Quella parte lì Giacomo non c’è l’ha più e quando il vuoto prende a farsi sentire vorrebbe toglierselo, affondarci le mani nude e strappare con quanta forza ha. Ma ancora non gli è riuscito di farlo. Come si afferra il vuoto? Come si fa a toglierselo da dentro e lanciarlo così lontano da non sentirlo nemmeno negli echi? Giacomo se lo ricorda com’era tenersela stretta prima che lei uscisse, la mattina presto, per andare al lavoro. Ricorda i viaggi, certe malinconie improvvise, stare a letto nudi sotto strati di coperte a fare le colle. Ricorda i litigi contorti, le rabbie che mischiavano oggetti e corpi senza precise logiche, mischiavano e basta. Fino alle interruzioni, quando lui non chiedeva e lei non diceva, o viceversa, un perfetto senso unico alternato con semaforo. La lezione procede come sempre, torna a casa vagamente stordito, non è sicuro di averla vista, Chiara, di esserci andato davvero nel solito posto. Non è successo niente. La finestra sta sempre lì. Il vuoto silenzioso anche. Ha dimenticato il latte sul lavello, lo butta senza pensarci. Lo fa e basta. Si sveste, s’infila a letto, chiude gli occhi e basta.

Anche Chiara chiude gli occhi ma non dorme, quasi mai dorme davvero. Rivederlo le deve bastare, è l’unica cosa stupefacente che può permettersi, l’unica che ha controindicazioni gestibili. Dure ma gestibili. Certo, un abbraccio. Un abbraccio è tutt’altro mondo e a Chiara torna quella paura ruvida che tappa il cervello, lo rende bollicine. Abbracciarlo è sentire, ricordare, essere, annusare, trattenere, aderire. Abbracciarlo può essere ritorno o addio. Chiara sa cosa può essere, una banalissima stretta la riporterebbe dove non può andare, dove non saprebbe come dire. Che lo ama e non lo ama perché è su ciò che resta, di sé, che deve concentrare energie. Deve sforzarsi di non guardare lontano e se arriva il vortice lasciarsi risucchiare, ma da sola. Da sola non c’è lo sforzo di trovare parole, di dare dimensioni a concetti, di collegare pensieri e gesti. Da sola il male è suo, che se la divori o la cuocia a fuoco lento, resta l’idea, di poter trattenere il caos, il vortice di cose incomprensibili che le impediscono di capire, amare, volere, camminare. Chiara non ci crede al coraggio. Il più delle volte è semplice e anche un po’ sano egoismo. Anche Giacomo è malato. Le sue cellule non legano bene con una famiglia di proteine e altri parenti del genere. Allora gli gira il mondo, se ne sta immobile alcuni giorni poi passa. I corpi tradiscono, il suo e quelli degli altri. Solo che per Giacomo è normale, quel sottile pessimismo aleggiante, quel sapere che a un certo punto le foglie si fanno scure e cadono, finiscono calpestate e si decompongono. Chiara l’ha scoperto da poco, che la felicità non è uno degli ingredienti base del vivere. I corpi sono freni indisciplinati, si mettono in azione in autonomia e non sentono ragioni. Solo le menti però, possono prendere quello che c’è e farne qualcosa. Impastano, smattarellano, cuociono. E in quella di Chiara gli interruttori non funzionano come dovrebbero, si dev’essere manomesso il contatore generale o magari è saltato il salvavita. Succede. Quando si eccede la potenza consentita quello salta e allora bisogna scendere in cantina e alzare delle levette. Chiara non ci va mai, in cantina. A occhi chiusi, nel buio della stanza. Si piega sul fianco destro, verso la finestra dalle tapparelle abbassate. Ingoia un grumo di saliva. Le mani si stringono a pugno, involontariamente. Tiene gli occhi chiusi. Non dorme e basta.

Se ne stavano una addosso all’altro. Giacomo storto sul letto, una spalla sul cuscino, l’altra ruotata per permettere al braccio di piegarsi all’indietro e la mano a raggiungere quella di Chiara stringendola piano. I seni di lei contro la schiena di lui, bacino incollato a sedere. Il tutto sotto il piumone, i nasi a far capolino. Se ne stavano così quando Chiara gli ha detto Ti amo. Gliel’ha detto a bassa voce, lentamente. Giacomo ha aspettato, aveva sonno, si sentiva intorpidito ma tranquillo. Le ha sentito la mano molle, quella stretta nella sua aveva smesso di tenere le dita intrecciate, lei dormiva. Si è voltato attento a non svegliarla, cambiando l’incastro-colla tra loro. Coi seni sul petto le ha posato le mani tra le natiche senza premere, appena un accenno, delicato. Anch’io, ha pensato Giacomo baciandole il mento. Non si sono guardati, appena due parole dette e due pensate. Ma si sono tenuti così stretti che i corpi finivano e iniziavano in un miscuglio contorto. I corpi si tenevano. In quel momento si tenevano. E basta.

Sul letto lo zaino, tra le lenzuola sfatte. L’armadietto aperto a nascondere la sagoma di Chiara. Entra la dottoressa, spiega, posa sul letto documenti e buste chiuse. Chiara annuisce sistemando l’anta, sbirciando dentro lo zaino nero e viola. Poche cose, ricambi, libri, cellulare e portafoglio. La dottoressa ha i capelli corti, rossi, le chiede se gliel’ha detto. Chiara non racconta, di sé, non chiede ma ascolta. Solo che quando si sta lì, nel mezzo delle cose, senza avercela la certezza di come si uscirà, è impossibile non dire di sé. La dottoressa sa di Giacomo il necessario a zittire la coscienza psicologa e vagamente narrativa che si sviluppa in posti come quello. Quando le fa segno di no con la testa, la donna si appoggia all’estremità del letto.
«Dove andrai allora?»
«Forse a casa dei miei, su in montagna. Forse torno all’appartamento. Ancora non so»
«È una buona notizia»
«Non ho detto il contrario»
«Ma lui non lo sa»
«L’ho chiamato, è venuto ieri. Solo che poi»
«Cos’è che non va?»
«Non riesco a sentirmi felice»
«Non dovresti. Se non lo sei, intendo»
Chiara posa lo zaino per terra, sistema le coperte meglio che può, la dottoressa non accenna a volersi spostare dall’angolo del letto, sopra la coperta marrone di lana infeltrita.
«Se non ci vuoi andare, da lui, non farlo»
«Non sono sicura»
«Fra sei mesi ti aspettiamo, hai tutto qui dentro»
Chiara s’infila il cappotto, non se lo abbottona. Afferra lo zaino, lo trattiene con le dita, se lo trascina verso l’uscita. La dottoressa non si muove, la osserva senza espressione.
«Non si guarisce» Silenzio.
«Mai abbastanza per stare bene come vorremmo» Si alza e la raggiunge sulla soglia della porta. Il corridoio è stranamente poco rumoroso.
Provare qualcosa per qualcuno non vuol dire stare bene. Si stupisce Chiara, di aver rischiato seriamente di dirlo ad alta voce. E di pensarlo. Amare non dà meno dolore. Certi tatuaggi non sono trasferibili.
La dottoressa sorride, «Sei una delle pazienti più faticose che io ricordi»
«Grazie» È tutto faticoso in fondo, comunque lo è.
E basta.



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