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E-book: "Preferisco vederci chiaro" Cap. V

Creato il 23 febbraio 2015 da Loredana De Michelis @loridemi

GLI ASPETTI EMOTIVI E PERCETTIVI DELLA VISIONE
Ogni cosa che facciamo si connota per la “colorazione emotiva” che gli attribuiamo. Esiste un atteggiamento emotivo di fondo, quando ci apprestiamo a guardare qualcosa, che è diverso in ognuno di noi e varia anche in base alla natura del compito. Per molti guardare è un dovere legato al capire e non c’è nulla d’interessante nella semplice contemplazione di una forma o di un colore. Per altri, guardare è un po’ specchiarsi e cercare di leggere interiormente le sensazioni suscitate dall’osservazione esterna, anche quando si tratta di leggere un’indicazione stradale.
Nel corso degli anni mi è capitato di notare molti comportamenti bizzarri legati al problema visivo e mi fa sempre un certo effetto sentirmi dire da qualcuno: “Ho 3 diottrie* in un occhio e 4 nell’altro”. Immagino queste diottrie che mi spiano maligne dal buco dell’iride del mio interlocutore. Quando cerco di farmi tradurre la frase, scopro quasi sempre che il fortunato proprietario pensa di essere in difetto permanente di qualcosa e che la diottria esprima esattamente la gravità della sua mancanza. Subito dopo può dichiarare serenamente che ci sono momenti in cui vede peggio e altri in cui vede meglio, e che i momenti in cui vede peggio sono sempre quelli di tensione, paura, rabbia, stanchezza, mentre quelli in cui vede meglio sono i momenti di rilassamento e di benessere.
In questo caso è interessante osservare come la persona sappia che il suo difetto visivo è variabile, ma al tempo stesso possa essere convinta che si tratti di un fenomeno fisso e misurabile: miracoli della cultura medicalizzata.
Un altro fenomeno singolare si manifesta quando dico a un paziente nuovo e pieno di buoni propositi che se vuole vederci meglio può senz’altro riuscirci, ma dovrà accettare il fatto di vedere bene tutto, anche le cose che non vorrebbe vedere. Invece di chiedermi di quali cose sto vaneggiando, a quel punto il paziente smette di respirare e mi fissa incerto: per alcune persone che ci vedono male questa è una vera minaccia.
Sembrerebbe ovvio che se non voglio vedere una cosa guardo altrove, oppure me ne vado, o chiudo gli occhi, ma non è così: in molti casi siamo costretti a guardare, anche quando vorremmo fuggire. Un genitore che ti sgrida e ti fissa minacciosamente negli occhi; un capo che ti sta imponendo delle mansioni odiose; un figlio che pretende attenzione, una persona cara che ti sta dicendo cose che non vorresti mai sentire. Un testo da studiare, che continua a passare davanti agli occhi senza lasciare traccia.
Sembra che una vista difettosa sia uno dei tanti trucchi che l’inconscio mette in atto ai fini di consentire a una persona di sottrarsi a una situazione difficile. Una valvola di sfogo come un’altra e che in certi casi utilizza la tonicità eccessiva o insufficiente dei muscoli oculari, piuttosto che la rigidità del collo o il bruciore di stomaco.
Da più parti del sapere giunge la stessa teoria: il disagio può tradursi in termini di alterata tonicità muscolare e di blocco funzionale. Le emozioni non vissute si cristallizzano da qualche parte nel corpo, alterandone il funzionamento, a volte soltanto momentaneamente, altre in modo più continuativo.
Le cose difficili da affrontare possono essere tante: quelle brutte, per esempio, quelle cattive, quelle che ci fanno paura o ci fanno soffrire; ma anche quelle troppo complesse, quelle che bisogna comprendere ad ogni costo, sforzandosi.
Personalmente ritengo che molti problemi visivi che si palesano nei primi anni di scuola siano strettamente legati all’apprendimento della lettura e della scrittura, sforzo di tipo intellettuale per il quale alcuni bambini, indipendentemente dall’intelligenza, non sono maturi. Questi bambini si ritrovano a dover passare da un mondo prevalentemente basato sul “fare“ a uno dove l’attività fisica va repressa a favore del “ragionare”, compito che presuppone la capacità di agire sulle dinamiche interne piuttosto che su quelle esterne. Non sapendo bene come usare uno strumento molto potente, ma dai comandi ancora sconosciuti come il ragionamento, questi bambini si sottopongono a sforzi intensi e mal diretti, che si traducono in disturbi fisici di vario genere. Molti di loro ci vedono perfettamente a patto di non dovere svolgere attività per le quali vengono valutati e che richiedono sforzo intellettivo.
Leggere non è soltanto vedere, e una lettera non è solo un insieme di tratti: è un oggetto a sole due dimensioni che non si può toccare, ma di cui bisogna capire la valenza simbolica rischiando di sbagliare. Cinque lettere non sono 5 mele, formano un significato che non ha niente a che vedere con le lettere in sé e che va intuito tramite una conoscenza a priori: è nel concentrarsi sul significato che la vista si sfuoca.
In questo senso ritengo che le attività intellettuali siano responsabili di una gran parte dei problemi visivi, ma non perché la lettura metta sotto sforzo il meccanismo di messa a fuoco: piuttosto la comprensione di cosa si sta leggendo mette sotto sforzo la mente, e la concentrazione intensa, unita alla paura di sbagliare, si traducono in un blocco del meccanismo visivo che, una volta instauratosi, può permanere nel tempo come abitudine.
Provate a osservare un oggetto o una frase scritta: ora concentratevi su un’operazione mentale, contate all’indietro sottraendo sette da cento fino ad arrivare a zero (100 – 93 – 66- etc.). La vostra vista rimane costante? Oppure nei momenti di maggiore concentrazione cessa di essere proiettata all’esterno ed è come se la volgeste all’interno di voi stessi?
Nessuno può ragionare e mettere a fuoco contemporaneamente, sono due azioni che impegnano molto il cervello e che devono essere coordinate in fasi successive: prima si osserva, poi si deduce e si ragiona in base all’immagine memorizzata. Può sembrare strano ma non possiamo osservare un orologio e cercare contemporaneamente di capire che ora è: prima dobbiamo mettere passivamente a fuoco l’orologio e memorizzare i dati che questo mostra; subito dopo interpreteremo questi dati attribuendo ad essi un valore. Le due azioni devono essere eseguite in successione corretta e sono separate da una frazione di secondo, ma se le invertiamo, tentando un’interpretazione del dato prima di averlo raccolto e memorizzato, ecco che iniziano i problemi.
Senza pretesa di certezza, credo che questo errore nel processo percettivo sia alla base di molti “difetti” sia visivi che scolastici dei bambini. In molti casi in bambino inizia ad avere problemi visivi quando le cose a scuola si fanno più difficili o lui sta attraversando un momento in cui si è accorto che certe cose sono “sfuggite al suo controllo”.
In generale, però, c’è una situazione che facilmente induce anche i più abili a commettere errori di raccolta ed elaborazione dei dati, ed è la tensione emotiva: i momenti di disagio, di aspettativa da parte degli altri e di competizione, possono “mandare in tilt” le attività di coordinazione del ragionamento delle persone, soprattutto se queste stanno attraversando un momento già impegnativo e difficile sotto altri punti di vista. Un esempio potrebbe essere la seguente interrogazione scolastica: a uno studente, improvvisamente messo al centro dell’attenzione di tutta la classe e quindi in soggezione, viene chiesto di risolvere la seguente equazione scritta sulla lavagna: X+Y=Z (x=5) (z=9). Lo studente deve riuscire a mettere a fuoco il dato (cosa che deve essere fatta in sequenza, un pezzo per volta: non è possibile mettere a fuoco tutta l’equazione contemporaneamente), deve far scorrere gli occhi avanti e indietro lungo la sequenza di segni, deve memorizzarla, poi deve interrompere l’attività di focalizzazione, compiere un ragionamento matematico, rimettere a fuoco l’equazione, controllare la sua ipotesi (spostando gli occhi avanti e indietro lungo la sequenza) e infine rispondere.
Sì, questa è la descrizione (veloce) di soltanto alcune delle operazioni che un cervello deve compiere in pochi attimi, di fronte a un compito tutto sommato semplice.
Questo avviene mentre l’insegnante aspetta e osserva lo studente, che si ritrova metà del cervello impegnata a valutare le conseguenze di un suo eventuale sbaglio e la figura che sta facendo.
Data la situazione di disagio, è probabile che lo studente cerchi di trovare una soluzione il più presto possibile e tenti di mettere a fuoco tutto contemporaneamente, entrando in uno stato di fissità. Oppure che cerchi di “indovinare” prima ancora di essersi dato il tempo di vedere e di capire. In queste condizioni, è molto probabile che la sua capacità di messa a fuoco fallisca e lui veda tutto annebbiato.
*La Diottria è l’unità di misura della Vergenza che a sua volta è l’inverso della distanza che separa una sezione di un fascio di raggi luminosi dal loro fuoco. Si tratta di un attributo della lente e non dell’occhio.
Tratto da "Preferisco vederci chiaro... e riuscirci senza lenti!" scaricabile da Amazon

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