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Economia – Domenico Lombardini

Da Fabry2010

Economia – Domenico Lombardini

Prefazione di Francesco Marotta

Una poetica dell’incontro

La cifra peculiare della scrittura poetica di Domenico Lombardini, il filo rosso che unisce in una trama unitaria le varie tappe del suo ancora breve ma già significativo percorso, condotto sempre con profonda discrezione e rigorosa attenzione ai presupposti e ai risvolti teorici del lavoro in fieri, è da ricercarsi nella presa d’atto dello snodo traumatico che la nostra epoca rappresenta, tanto sul piano etico che su quello culturale ed estetico, e nella piena consapevolezza, da cui la sua ricerca in gran parte si origina e si dispiega, che sia possibile trovare un punto di sintesi tra il rigore, le ragioni e la semplificazione ordinatrice tipica della scienza, e l’insondabile, ontologica, metamorfica refrattarietà che l’arte, in modo particolare la poesia, apparentemente le oppone.

La traccia che ne scaturisce proietta sul foglio i segni e la tensione tipica di una poetica dell’incontro, nella quale i due momenti, pur non dismettendo mai l’abito, gli strumenti e le coordinate concettuali che ne definiscono gli statuti, il senso e le procedure comunicative, si dispongono ad accogliere le reciproche alterità, in uno con la domanda implicita di verità da cui prendono le mosse e nella quale trovano esistenza e giustificazione, fino al riconoscimento della unicità della radice (“l’imperitura semenza del vivente”) da cui scaturisce la diversità e la singolarità degli ambiti, la specificità degli orizzonti in cui organizzano il loro discorso.

In Economia, infatti, domina l’osservazione (non una statica frontalità, ma un riverbero di “onde concentriche” che “modifica l’oggetto”): irrinunciabile tappa di ogni percorso scientifico e normativo di avvicinamento al fenomeno e, nello stesso tempo, territorio interminato che l’oltranza del canto tenta e sgretola per sporgere oltre i margini, dove l’occhio non ha più categorie per definire la superficie e l’ampiezza della visione. Di conseguenza, mentre la mano dispone la materia poematica (il “miscuglio rivoltante” del presente) in gabbie metriche e strutture semantiche di geometrica aderenza al punto focale circoscritto, lo sguardo, contemporaneamente, si fa movimento, lampo che produce l’accensione lirica e il suo necessario contrappunto umbratile, come seguendo figure che si generano simmetricamente dal rovesciamento alternato degli specchi in cui si riflettono: un intero caleidoscopio di anticipazioni, di lembi fluttuanti di futuro che svelano l’irriducibile e sostanziale estraneità della lingua segreta delle cose alla unitaria e uniformante significazione di ordine razionale.

La visione è duplice, leopardianamente intesa, ed è coscientemente condotta verso un approdo di valenza etica (cioè: radicalmente civile e politica), che è il portato naturale di un lavoro di rarefazione, di disincrostazione dell’inutile e dell’inessenziale (l’economicità del verso, che si erge a emblema dell’umano da riscoprire fuori e dentro di noi), di eliminazione degli accumuli e delle stratificazioni tanto dalla pelle del soggetto, quanto dai simulacri, cognitivi ed emozionali, a cui è ridotto l’universo con cui quotidianamente si relaziona.

Il reale ne esce modificato e rigenerato su ambedue i piani: gli oggetti, spogliati dell’artificiale urgenza reificante che li riduce a semplici materiali d’uso, mostrano tutta la loro fraterna e dolente contiguità con il volto, i suoni e i silenzi di chi da sempre li segue nel cammino dell’esistenza, trascorrendo di forma in forma insieme a loro; e il soggetto, infine, ricondotto a una funzione fatica da tempo dimenticata, o trasformata in puro veicolo di vuoto e insignificanza, riscopre la parola che preserva dal tempo, dice il mondo senza ridurlo a sua immagine e somiglianza, e la insegna alla sua lingua affinché ne faccia argine, sentinella vigile “ai confini della non presenza”.

*

inguaribile strabismo dell’osservazione – puntare

un dito frangendo uno schermo acqueo che riverbera

in onde concentriche i tocchi; così osservare

modifica l’oggetto, senza una possibile oggettività

*

non è questo il migliore dei mondi, diceva

- è forse il peggiore; l’altro ascoltava

e fissava la granulazione salivare sul labbro, non capiva

*

mi sono adagiato su un comodo reticolo,

e ho accettato senza riserve la consistenza

finita del corpo; poi ho creato nel mio addome

un’apertura, uno speco verminoso. venne un medico,

mi disse: è normale – non passerà.

*

ho pietà della mia coazione a ripetere

atteggiamenti-pensieri-stati mentali.

ho pietà della mia pietà.

*

l’aria non si fa abbracciare, con schiocco

le mie braccia chiudono circonvoluzioni

ridicole. solo ora mi accorgo: a loro basta

questo, la vìa sicura, il corso illuminato, il nodo

urbano del consumo, l’ingurgitamento;

il mondo è fango.

*

ognuno vorrebbe per sé e i suoi cari
un alveo di eternità. accogliere un corpo
si può, purché si adagi con cura
su una giusta lettiera di foglie. prego,
e solo pietà invèra
il mio dire. alcuni, per difetto,
costruiscono monumenti e dicono:
ecco, questa è la mia pietà, la croce
e l’altare, il salmo e la parola.
ma poco attecchisce di ciò che s’innesta; si finge questo.
ai confini della mia pietà, nessuna parola,
solo gesti, ostensione, mimèsi; e questo è imparato.

*

guardando alla vita appare possibile
una forma, la giusta. vano sembra
un conteggio di morti e ricerca di senso.
cose da fare: accettare il meschino,
il negletto putrescibile dei corpi.
eppure vorrei abbracciare, in una casa
proteggere gli affetti – uno a uno -
e i corpi, preservandoli dal tempo,
da questa ottusa abitudine a consumarci

*

correlato psicologico del post-fordismo: forma mentale

e abitudine al dolore della produzione. la macchina che produce

perde olio – sangue mai.

ab ovo

ho passato senza te i quattro angoli

soprelevati di questa città, una suburra

borghese; spolverini gialli senza pietà,

ortofrutta seriali, minutaglie giovanili

esiliate ai confini della non presenza,

onde canute olezzanti cadaverina

e profumo, un miscuglio rivoltante.

talora si sorride stupiti, ché si genera la vita

dalla morte… ho perlustrato da straniero

il mondo che ti aspetta, il milieu dell’umana

decadenza; poche radici irradiano

la loro sete sotto l’epidermide crostosa

dell’asfalto, sparute le corse di bimbi,

solo abbondanti facce di cera, non

la dignità del ritiro, l’accettazione della morte…

vogliono ancora godere, i relitti, arroccarsi

in trincee di silenzio e privilegio anche,

non vedono che il mondo sta morendo,

e fiorendo, sul limite della putrefazione

e del boccio; la tua vita deflagrante

li poltiglierà, proiettandoli nei loro loculi

esausti… la tua epifania renderà l’universo

còsmo, l’arbitrarietà volontà, l’inerzia

rabbia volitiva; la china entropica

si invertirà e il tempo collasserà;

il miracolo farà corollario alle leggi

della termodinamica; due più due

per una volta non farà più quattro;

un’eccezione allo scandire dei momenti,

delle fini di tutte le cose, la rivoluzione

di un inizio fragoroso, perché germogliato

dal nulla, dal poco, dall’imperitura

semenza del vivente, dal perpetuarsi

cocciuto e potente della vita, dal suo replicarsi

uguale e irrimediabile, seppur scoscesa

nella sua incolmabile differenza, arsa

dalla sua unicità, dal suo irripetibile accento…

*

segni ce n’erano stati; forse

ai profeti o

demiurghi professionali sfuggirono, per incuria…

lo spettacolo erano le vetrine, i

nuclei commerciali fiorire

non richiesti; non c’era domanda

di nuovo asfalto, né di cemento; ma

il bisogno è coltivato, innestato

pezzo su pezzo – margotte; il cervello, poi,

farà da sé; crederà alla legge

dei borghesi – invidia la pagliuzza

soprannumeraria del vicino; anche il gregarismo

fra cenciosi, poi, alla caccia del diverso, non

evidentemente bianco, in branco. le anime ricciute e camuse

che popolano questo Paese sono un futuro,

un’umanità – adesso.

*

se questo non è autoritarismo: facce,

facce sfacciate, culi scrannati dicono

perentori e programmatici NO; ci sono

i giornali, la televisione, una

plu-ra-li-tà – di assensi, l’ossequio

codino al potere. il potentato non

usa tacchi di ferro; sente

che la coscienza è etero-

diretta, lo stupro quotidiano; e pedagogico…

i bimbi bambi babucciano

pauriti, allungano manine, gli cadon

sulla cucurbita anatemi e direttive,

sbavan richieste; e mai che genitori

emettano un zinzino NO, non

vogliono incorrere in pueritraumi…

coscienza sociale

un occhio fenditura acuta

vorrei che fosse il mio occhio

come lancia nel futuro che

vaticinasse il giusto.

l’aruspicina non è la nostra scienza,

ma si interpretano solo segni terreni

e terra rimane nelle mani, ne cadono

a grumi. non resta che questa

anodina promessa: coltivami e

ne sarai alleviato, l’allodinìa

calmerà al fine. ma vedi che

il dolore non passa, preme col dito

sulla cute belluina lasciando chiazze

digitali blu che persistono oltre

il giusto. non vedi che questo

si nutre di te? non vedi che ride

mentre sbafa dilatandosi? non vedi?

si accetta tutto per le lire, le poche, per

sentirsi conformi alla mano che

dirige la tua volontà: l’acquistare è

un bel godere, quel poco anche.

*

buona giornata, buono giorno: kàlimèra

anche a te; giorni, allora, erano di polìmeri,

plastiche che impetrarono per sempre purulente la nostra vita…

contaminazione fu da sotto, dalle suole

saliva, imbibendo piedi e gambe, il bando

della necessità: vergogna divenne una mano

che chiede, l’intimità sottesa al soccorso, la

domanda d’aiuto. ora le cause sono effetti,

un magma irrisolto, regna l’entropia. si sottostimano

le cause, i veleni le cui assuefazioni

obliterano la comprensione, la soglia

di dolore. la pedagogia devastante: consuma:

o sarai consumato.



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