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Eleanor Cole – Episodio 1: Humanitatis Lucrique

Creato il 07 aprile 2012 da Fant @fantasyitaliano

lily cole 745 Eleanor Cole   Episodio 1: Humanitatis Lucrique racconti steampunk racconti horror racconti fantasy racconti fantascienza racconti fantasy italiano fantasy fantascienza Collaborazioni Il termometro saliva a sei gradi, l’icona di uno zefiro brillava sul display con gli ottonari temperatura adeguata – respirate, se vi piace – vi è concessa l’entrata.Eleanor toglieva lo scafandro, slacciava le cerniere, si scalzava gli stivali magnetici, si spogliava della tuta di goretex e scioglieva i ricci arancio sulla giubba smeraldo. Si allacciava i nastri rossi delle calze e della zuava, s’infilava i tacchi alti e annodava il foulard.
Farinelli raccoglieva l’equipaggiamento: il casco e la tuta e le bombole e i guantoni; lo chiudeva in un guardaroba alla parete del portellone. Le allacciava la cartucciera e le pistole sui fianchi morbidi. Lei si specchiava nel torace del roboto, velava di belletto la stanchezza per il viaggio. I crisoliti degli occhi, il volto di plenilunio, le splendevano di un sorriso sull’ottone e la brina.
«Siete splendida, signora», gorgogliò Farinelli; digitò sulla consolle del battaglio, il portello si aprì. Passarono, dall’anticamera pressurizzata, nel soggiorno d’ingresso del fondaco orbitale.
Un automa spalancava l’uscio d’oro e betulla, li invitava nell’immenso corridoio. Eleanor e il valletto attraversavano la galleria.
Le navate s’innalzavano dieci metri dal suolo su una selva di corinzie d’acciaio; la folla d’impiegati, funzionari, commessi, tecnici, broker, madidi e scamiciati, gremiva le tastiere, gli schermi sui trochili e sudava e schiamazzava al carosello degli indici.
Le vetriate di cristallo, affacciate alla fonda, specchiavano fuori, nel gelo dell’infinito, l’elio vele, le chiglie, le orifiamme e le capitane degli astro-galeoni all’ancora attorno ad Ammit. La sfera color ocra del mondo minerario colmava l’orizzonte dell’albergo orbitante: lo spazio s’incurvava, a 286.000 chilometri, in un margine di oscurità tempestata di stelle.
A migliaia le scialuppe si staccavano con scie d’idrogeno dalle fiancate delle titaniche navi-madre. I container più grandi, degli antichi potentati, al contatto con l’atmosfera s’incendiavano dei loro logo: le vampe dell’Apple, le blu della Microsoft, le azzurre della Disney, le giallorosse della McDonald’s, esplodevano per prime nei crateri del pianeta, nugoli di navette atterravano fra quelle fiamme.
I sensali spartivano su un catasto olografico le aree del pianeta non assegnate alle major, i delegati di cartelli e trust si litigavano le concessioni limitrofe. I moduli commerce-forming si spalancavano nei deserti.
Sugli schermi incorniciati di foglie d’oro che brillavano nelle navate del corridoio disparivano gli antichi Greenaway, i Viola, i Cahen; fra jingle di viole, clavicembali e oboe appariva la diretta dello sbarco su Ammit.
Le Borse si fermavano per l’occasione solenne, la folla ammutoliva a naso all’aria. Gli esagitati si rinfilavano le camicie nei pantaloni, si asciugavano le fronti madide, riallacciavano gli alamari.
Eleanor seguiva alla cornice più grande la telecronaca di trionfi e di fasti; Farinelli si arrestava con un clic, specchiava lo spettacolo nel vetro degli occhi.
Lei si corrucciava: «vorrei essere là»; l’automa guardava alla magnifica cerimonia con quella smorfia da adolescente stupito, forgiata per sempre sul suo volto di metallo.
I microfoni tacquero i ronzii di servizio, il monotono chiacchiericcio di routine: colmarono la galleria dell’Ev’ry valley di Haendel. Lo schermo tracimava dei vessilli di compagnie che garrivano nel vento torrido alieno, il quadro si allargava a un campo lungo di gentiluomini che scendevano da una scialuppa.
Il vecchio magnifico Lodovico Landolfi, alla testa di quella folla di ottone, di nastri, di fiocchi, di resine e silicio; con la larga gorgiera di pizzo che irradiava dalla visiera polarizzata, lo scapolare scarlatto sul goretex nero, accettava dai rappresentanti dei minatori le chiavi di un nuovo mondo da lottizzare. I capo-scavo con le tute color sabbia, ingobbiti dagli obsoleti, malsicuri respiratori già smessi, nell’Universo civile, dalla fine dello scorso XXVI secolo, s’inchinavano al Presidente delle Galassie Orientali sottomessi da un desiderio di fatuo, applaudivano con i guanti logori le promesse di glamour.
Eleanor si rattristava: «l’omuncolo se la cava; poveretti se sapessero a chi promettono fedeltà, esprimono fiducia, gratitudine ed entusiasmo.»
Alle spalle di Lodovico Landolfi, di uno stuolo sfarzoso di consiglieri sotto un bosco di vessilli di M e di mele, silhouette di Mickey Mouse, di pixel arcobaleno, Eleanor scrutava soprattutto le facce dei coloni nel plexiglas dei caschi: erano loro l’obiettivo vero. Quei truci cipigli anneriti nei pozzi, graffiati dalle sabbie, scottati dai due soli, spellati dalle tempeste e attoniti di lontananza, quella smorfia inconfondibile degli esiliati anni-luce, tacevano diffidenti sotto le insegne dell’entertainment.
«Ho il sospetto che sarà difficile», Eleanor sospirò. Cavò di tasca la tabacchiera, prese un pizzico di kentucky; ripeté quel suo refrain portafortuna inciso con un coltello sul coperchietto di argento: Humanitatis Lucrique Nomine.
Le immagini sfocarono in un telo carminio, la pastorale pubblicitaria interruppe la telecronaca. Gli schermi irradiarono le navate di porpora: al tramonto sulle pianure di talco di Chanel C-971 una ninfa ascoltava liuti e archi di Vivaldi; i cirri scrivevano su un crepuscolo struggente le latine maiuscole dell’antica maison.
Lasciarono la galleria, salirono agli uffici. Eleanor bussò a un’altra porta di legno bianco. L’uscio si aprì con un profumo di latte, di frutta e caffè sull’imbarazzo di Ibrahim Sebastiano Matsumoto:
«Vi aspettavo più tardi, signorina Cole», il direttore della stazione orbitale, tolte le dita allucciolate e grassocce da uno strato di lamponi su una crostata mignon, strofinati i mustacchi su un tovagliolo di seta, si spazzolava briciole e zucchero dalla camicia e annodava la cravatta e raddrizzava la zazzera; caracollava da un tavolino da tè ad accoglierla nello studio, la accomodava alla scrivania.
Si trincerava all’altro lato del tavolo su uno scranno di rovere e di velluto bisunto, si schiariva la voce dal cappuccino e le leccornie, «mi auguro abbiate fatto buon viaggio.»
Lei sorniona si sdraiava sulla seggiola, Farinelli si spegneva sull’attenti in un angolo: «ho dormito fino a sessantamilioni di chilometri dal pianeta, grazie. Dovevo restare in convalescenza criogena, ma incrociava un brigantino, l’ho preso: perciò sono in anticipo. La distanza è un nonnulla, la stessa Terra-Marte. Qualche ora di riposo non farà la differenza.»
«La Terra!», s’illuminò Matsumoto, «Come vanno le cose sulla Vecchia Palla?…»
«… di sterco», glossò Eleanor. L’altro arrossiva; «non a torto voi spaziali la chiamate a quel modo: è un pianeta da buttare, non mi offende, è la verità. Soddisfatti i convenevoli, direttore: come vanno le cose qui?»
Matsumoto digitò sugli arabeschi del telaio di ciliegio di un raro Nam June Paik, quello si dissolse nella diretta da Ammit:
«Splendida cerimonia.»
«Sconfortanti previsioni di vendita.»
«Stiamo sbarcando ogni tipo di offerta: ristorazione, entertainment, moda, motori, hardware e software, stupefacenti, fitness, sport, pornografia, religione e cultura. Gli indigeni ci accolgono con gli occhi lucidi: poi…»
«… non consumano nulla. Per questo sono qui. Soprattutto per impedirvi di fare danno quando, a casse vuote e magazzini strapieni, vorrete stordire di reclame questo mondo e esasperarlo a comprare con odio. Entrambi rappresentiamo un’istituzione che ha per motto umanità e profitto: a me interessa non perdere la prima voce e garantire la manteniate anche voi.»
Matsumoto si piegava alla sputacchiera d’argento attorcigliata di cavi e spinotti sotto il tavolo.
«Vi confesso, signorina Cole: sono scettico. Mi convincono già poco i feedback, lo storytelling, le indagini di mercato, gli studi di settore e le scempiaggini affini: ho combattuto nella Guerra dei Trenta Brand; nelle Guerre di Successione di Amazon: mentre quelli come voi, nelle sedi di compagnia, si baloccavano con gli slogan, io sudavo nelle fiere e nei saldi. Io sarei per occupare gli ipermercati, rimbambire la popolazione di spot e ammalarla di shopping compulsivo. Non credetemi sprovveduto: vi conosco, signorina Cole. Ma ritengo l’antropologia comparata una scienza datata agli anni Novanta del XXI secolo, quando la Cina sbarcò su Venere e gli astronauti riportarono quei batteri. Una scienza di seicento anni fa; troppo antropocentrica, troppo… terrestre. Sono pubblico e clienti, non esseri umani.»
«Non avete l’autorità di essere scettico, signor Matsumoto», Eleanor gli sbatté gli stivaletti sul tavolo, scoprì le due pistole, «io, viceversa, ho quella di scavalcarvi; di anteporvi il prestigio, l’onore e il guadagno della Compagnia. Con metodi se occorre più violenti dei vostri.»
La stanza all’improvviso risuonò di spaventi, gli schermi la irrorarono di un orrido scarlatto: le folle dei minatori, i promoter terrorizzati, gremivano gli schermi che si offuscavano di polveroni; l’All we like sheep si spegneva nelle urla.
Un’olocamera zoomò nel tumulto: il Presidente Lodovico Landolfi si torceva in agonia sulla sabbia di Ammit, soffocava nel proprio sangue che ribolliva nello scafandro. L’anziano strabuzzava, schiumava, moriva attorniato dai dignitari e gli indigeni atterriti, gli automati inetti.
Eleanor saltò, rovesciò la poltrona; Farinelli si riaccese con un accordo di sol.
«Devo scendere sul pianeta. Subito.»
Matsumoto ruggì in un interfono, tolse una pistola da un cassetto dello scrittoio. I ponti, gli hangar, le caserme del fondaco gli rispondevano ai microfoni in un canone di signorsì.
«Una capsula di fanti di marina! Vi accompagno, signorina Cole.»


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