La notte le sorprese un quarto d’ora più tardi.
Le tute proteggevano Eleanor e Delfina dal gelo esterno e dalle strette del vento, che appannavano l’ottone di Farinelli e stridevano sulla corazza del robot. Il suolo gemeva dell’intensa escursione termica: un vagito orripilante da orizzonte a orizzonte e il sibilo del pulviscolo che erodeva le rocce.
Eleanor dai filtri percepì quel fiato diaccio e controllò la strumentazione sul polso: il termometro era sceso di trenta gradi, segnava a cifre azzurre meno cinque sotto lo zero.
Percorsa la spianata di roccia, salivano al deserto per piste di ghiaione, incespicavano nella sabbia, scivolavano dalle dune. La massa dell’oasi più vasta ad ogni passo lacerava d’inquieto nero l’orizzonte desolato, monotono, lo zaffiro della terra e il fiordaliso del cielo. Ammit immensa, nella sua lenta rotazione ed orbita, poteva stornare la faccia arida dai soli: due stelle pur così grandi e lucenti che mitigavano l’oscurità di entrambi i lati del mondo.
Eleanor squittì di meraviglia:
«Non avevo mai attraversato un deserto di notte!»
Delfina la azzittì. Le accennò all’insediamento lontano, al tappeto della baraccopoli nell’ombra delle cisterne; alla pietraia sferzata dalle folate che nascondevano quel paesaggio in una nube di polvere:
«Lo udite anche voi?»
Lei regolò l’auricolare sullo scafandro, cercò di distinguere fra i lamenti del deserto e il fruscio di fronde aliene nell’oasi: un brontolio regolare e meccanico, e scoppi, le inseguivano da una distanza che non riusciva ad indovinare.
«Sono loro?», gemette.
«È un rombo di motori.»
«Non riesco a vederli.»
«Per il vento e la sabbia. Si sono mossi piuttosto tardi, ma a breve saranno qui.»
Farinelli accese gli abbaglianti oculari: il fascio di luce bianca fendette l’oscurità, strisciò fra le dune, schiarì la spianata:
«No, deficiente!», strillò l’esploratrice, «finché non li vediamo, loro neppure non…»
Grida belluine esplosero in lontananza: ingranare di diesel e starnazzare di clacson, raffiche di mitragliette e scoppi di bombe a mano assordarono la desolazione sbiancata dai fari. Una flottiglia di sei pick-up sgangherati valicava la pietraia e aggrediva le dune: gli indigeni sparavano dai tettucci, stipati sui vani-merci; mulinavano i mazzuoli e abbaiavano maledizioni.
«Desolato, signora», piagnucolò Farinelli.
«Correte!»
Eleanor carezzò l’automa afflitto, lo spinse avanti a lei con una pacca sulla spalla. Seguì Delfina che arrampicava le creste: le dune si sbriciolavano sotto ai loro stivali; il vento e la pendenza trascinavano la sabbia in una conca a qualche chilometro di distanza.
Le fronde e le radici dell’oasi, quasi tracimassero da quel catino di rena, salivano dal fondo fino all’argine d’ocra morta.
«Là sotto!», gridò Delfina, «Lasciatevi scivolare!»
Eleanor fu investita da un abbagliante, la visiera dello scafandro le evitò l’accecamento; voltò le spalle alla colonna di auto e stretta a Farinelli si tuffò nella sabbia. L’esploratrice pattinò verso il fondo con il fucile puntato agli inseguitori.
I pick-up accelerarono, si arrampicarono sulla gobba: il primo mezzo che aggredì la duna affondò con le motrici nel terreno friabile. Il peso dell’equipaggio lo impennò e rovesciò, l’auto cozzò di muso contro quella che la seguiva nel fracasso dei parabrezza, con il cofano accartocciato. I pick-up cappottarono e si incendiarono, gli Ammit a bordo strisciarono dai rottami crivellati dalle pallottole che esplodevano nel fuoco.
«È il loro deserto e non ci sanno guidare», Delfina ridacchiò.
Due pick-up ingranarono nel solco e sgasarono sulle creste delle dune, si portarono sopra di loro. Gli indigeni spararono con le obsolete machine-pistole, una gragnola di colpi si perse nell’oscurità. Gli Ammit agguantarono le granate: le bombe esplosero nella scia degli automobili, il terreno cedette. I pick-up si inclinarono da un lato, rovesciarono gli equipaggi, i motori tacquero ingolfati di polvere.
La benzina gorgogliò nei serbatoi, e i furgoni scoppiarono in una nube di fiamme.
Eleanor, Delfina e Farinelli si rotolarono nella frana di terriccio che scendeva sempre più rapida nelle tenebre dell’oasi, l’automa le proteggeva col proprio corpo dai pezzi incendiati che si staccavano dai rottami, schizzavano per il pendio e si spegnevano nella sabbia. Gli Ammit sopravvissuti gattonarono ad afferrarle, lei e l’esploratrice li allontanarono a calci in testa.
«Non mollano», ringhiò Delfina.
«Vi divertite?»
Eleanor era allo stremo delle forze e dei nervi: sopportava la vista degli indigeni carbonizzati, di quelli in poltiglia sotto i pick-up ribaltati; il puzzo del carburante, di viscere e di metallo e dei pollini alieni che si spargevano dall’oasi. Era scossa dalle esplosioni e dal sibilo dei proiettili.
Si tastava e si frugava d’istinto all’altezza del taschino dove teneva il kentucky, e le dita le indugiavano sui lacci della tuta.
Farinelli le tenne il polso.
La frana si fermò giù nelle tenebre su una soffice marcescenza di foglie di piante grasse, di radici di arbusti. Schiacciarono le piante marce col loro peso e una nube di pollini le stordì di profumo. Sul diaccio carapace del robot evaporò un icore caldo e appiccicoso.
Gli ultimi pick-up incrinarono i paraurti contro i trabiccoli incendiati sull’argine, si impantanarono nelle pozzanghere d’olio. Gli Ammit smontarono vomitando proiettili, snocciolando esplosivi, gli scoppi riverberarono iridescenti sul pulviscolo che esalava dall’oasi.
Eleanor, Delfina e Farinelli si appiattirono nel fogliame molliccio al sicuro da quell’attacco alla cieca: l’icona di un’ampolla lampeggiò sui loro schermi:
«Gas di putrefazione, la conca ne è satura: magnesio, metano e potassio.»
«Gli basterebbe un fiammifero, una tanica di benzina», grugnì l’esploratrice, «altroché giocare ai cow-boy: ci arrostirebbero. Grazie al cielo questi ottentotti non imparano mai. Guardateli: ci hanno perso per un istante di vista e già non sanno più come muoversi. Resteremo fermi qui, in silenzio, finché non se ne andranno o esauriranno sparando al niente le munizioni. Poi…»
Gli abbaglianti dei pick-up schiarirono la conca: dove i fari accarezzavano le fibre morte il fondo si accendeva di riflessi multicolore.
La sciabola di luce rimbalzò su Farinelli: gli Ammit, a quel riverbero di metallo, caricarono i colpi in canna e si ammassarono attorno su di loro.
«Svelti, in piedi! Di corsa fra gli alberi!», Delfina strillò.
Eleanor tentò di correre nella torba al sicuro fra i grandi tronchi dieci metri distante: ma ad appena un passo di là dov’era affondò fin le caviglie in una malta più densa, che le impedì quasi del tutto di muoversi inchiodandola di spalle sotto il tiro degli indigeni.
Delfina, in ginocchio alla sua sinistra, imprecava intrappolata nelle stesse condizioni: armava disperata gli ultimi colpi di carabina e tentava di torcersi e tirare diritto, ma il raggio del mirino stornava dai bersagli.
Farinelli restava inerte, prono, con le bocche del lanciarazzi otturate dai fiori marci:
«Signora», gorgogliava dal fondo torbido, «non…»
Eleanor cercò lo sguardo del robot, ma la maschera d’argento non si alzava dalla putredine. Si volse all’esploratrice: e specchiò, nella visiera polarizzata del tricasco di lei, rivolta allo stesso modo a guardarla, il proprio volto livido irrorato di lacrime.
Delfina rise forte con un cenno di vittoria:
«Evviva la Compagnia delle Galassie Occidentali!»
«Evviva le Compagnia delle Galassie Orientali», Eleanor soffiò. L’automa intonò nel fango un possente alleluja.
Il clic delle decine di granate e mitragliatrici echeggiò sopra di loro sull’argine della conca: azzittito all’improvviso da un coro lugubre e timoroso che degradò, negli scafandri degli Ammit, in un guaito servile e un ululato di ottenebrati.
La torbiera si riempì del fracasso di machine-pistole che venivano disarmate, bombe a mano soffocate nella sabbia, cigolio di sospensioni di pick-up, scricchiolio di balestre, sbattere di portiere e motori che ripartivano.
E clacson e polvere.
Le urla degli indigeni e il borbottio dei diesel si spensero lontano fra le dune irrequiete.
Eleanor cadde esausta sulle ginocchia: quasi il cuore le scoppiava nella tuta.
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