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Eleanor Cole – Episodio 17 – Romanzo a puntate di Alessandro Forlani

Creato il 18 settembre 2012 da Fant @fantasyitaliano

Eleanor e Delfina arrancavano nella torba: ad ogni passo gli stivali e le tute si appesantivano di zolle erbose appiccicaticce, e i viticci di arrampicanti in necrosi le avvinghiavano alle caviglie.
Strisciarono sulle ginocchia, soccorsero Farinelli.
«È come per le sabbie mobili», suggerì l’esploratrice, «sollevate la testa, sdraiatevi e nuotate.»
Si stesero a pancia sotto e scivolarono sui carcami, raggiunsero gli alberi, si aggrapparono alle radici. Eleanor s’arrampicò: una pianta le schioccò fra le mani, si torse e si schiantò, sparse al suolo grani bianchi ed oleosi; lei ci scivolò. Il robot e Delfina la trattennero per le braccia.
S’inoltrarono nel profondo dell’oasi che erano fradici, sozzi, incrostati di fango.eleanor finale 220x300 Eleanor Cole – Episodio 17 – Romanzo a puntate di Alessandro Forlani urania alessandro forlani steampunk romanzo fantasy romanzo fantascienza romanzo autopubblicato romanzo a puntate racconti steampunk racconti fantascienza racconti premio urania libri fantasy it fantasy italiano fantasy fantascienza
Gli alberi si infittivano attorno a loro più robusti ma pallidi ad ogni passo: la corteccia era unta, lucida, liscia; le cime si assottigliavano in un cuneo, non avevano foglie. Il suolo era cosparso di quel polline, grasso, che nutriva altre piante, parassiti e licheni. Farinelli si chinò ad esaminarle:
«Sono specie, mutate nei secoli, sviluppate dai semi importati dalla Terra. Accumulate in questa conca dai venti.»
Delfina calciò i tronchi:
«Questi, invece? Che schifo.»
«Una specie che non conosco. Originaria di questo mondo, probabilmente.»
«Su questo mondo non è nato mai niente.»
Eleanor schiarì gli sterpi con il faretto, tastò le foglie di quegli sterpi mollicci:
«Hanno in comune la consistenza e il colore.»
«Piante grasse, la maggior parte. Albine.»
«Carnee», rabbrividì.
Il cielo incupiva. Il termometro scese ancora di qualche grado, e pur nel grembo tiepido dell’oasi le piante scricchiolarono nella stretta del gelo. Il suolo era azzurro di brina.
«Il prossimo passo», proseguì l’esploratrice, «è trovare una fonte d’acqua e un riparo. Muoversi.»
Eleanor barcollò scudisciata da una folata, nauseata dall’odore di marcescenza che suppurava nel tricasco appannato. L’adrenalina la abbandonò, la fatica la piegò sulle ginocchia.
Crollò.
«Fermiamoci», supplicò Farinelli.
Delfina irradiò con la sua torcia l’intrico degli alberi che s’infittivano tutt’attorno: il raggio si fermò, pochi metri distante, su un nodo continuo di radici e di sterpi troppo stretto per attraversarlo e troppo secco per non romperlo con fracasso.
«Accampiamoci», acconsentì.
Si accasciarono con un gemito.
Farinelli s’interfacciò allo survizaino, il menù del device gli brillò nelle pupille. Il robot riferì degli antibiotici, gli stimolanti, i coagulanti, i depuratori per acqua, gli hardware e i software utili e disponibili nelle riserve dell’apparecchio:
«… e una noce per due persone», squillò.
Delfina si alzò in piedi, si scostò di qualche metro, si appoggiò alla carabina, sbadigliò:
«Non sono così stanca: sto di guardia, ve la lascio.»
Farinelli ficcò lo zaino nel suolo, scelse noce dalla lista di opzioni: una cupola di kevlar si allargò attorno a loro, s’inchiodò nel terreno, brontolò di depuratori. Un oblò trasparente dava accesso al rifugio.
L’automa invitò dentro l’esploratrice:
«… ma neppure, se crollaste, potreste mettervi in stanby.»
Eleanor fece posto all’esploratrice: si accucciarono nella cupola, si slacciarono gli scafandri. L’aria era gelata, sentiva di artificiale: lei sopportò lo schiaffò diaccio della notte che anzi le alleviò lo stordimento e la nausea; respirò, inghiottì come insegnatole da Delfina e si abituò a quel disgusto di plastica.
Poté sciogliersi la tuta, pizzicare alla tabacchiera.
L’altra si servì da uno sportello del survizaino di una siringa e due fialette di vetro:
«Perdonate se rifiuto il kentucky: ho bisogno di alcunché di consistente. Soprattutto, non voglio chiudere occhio: quest’oasi mi fa ribrezzo, non capisco perché.»
«In questo modo vi ucciderete.»
«Siamo senza munizioni: moriremo comunque.»
«Domattina attiverò il radiofaro: non ve l’ho forse promesso?»
«Fedifraga. Non lo avete fatto fin’ora», Delfina sghignazzò, «non lo farete fino alla fine di questa impresa.»
Le distolse lo sguardo, incrociò fuor dall’oblò della noce quello verde e fioco del robot che vegliava nell’oscurità; scosse il capo con pena.
Eleanor guardò muta la trasmittente orbitale allacciata allo zaino in una tasca di sicurezza, pronta all’impiego in un clic di interruttore. Il segnale in sessanta secondi avrebbe raggiunto la termosfera, catturato dalle antenne del Fondaco; una navetta avrebbe ruggito nell’hangar, e in un’ora sarebbero state salve:
«Tornerei molto in anticipo sulle premure di Matsumoto», pensò «e in celere obbedire le aspettative di Farben. Con una scout nemica catturata nel corso della missione.»
Se su Ammit c’è un negromante, aveva detto il Marchese, va trovato e distrutto. Ne sapeva abbastanza: gli olocausti, i fossili rianimati, quel filmato impossibile, fondamenta che sanguinano.
Eppure arrossì:
«Gli Ammit non ci inseguono. Siamo fuori pericolo.»
«Potremmo anche trovare di peggio!», ruggì l’esploratrice, scaraventò la trasmittente via da sé, dal suo sguardo d’acciaio; singhiozzò con una smorfia intraducibile di rabbia per quell’oggetto oppure di disperazione.
Si accucciarono spalla a spalla fra le coperte che isolavano la noce dal suolo gelido vegetale.
Eleanor si addormentò.

 

Aprì gli occhi sul cielo limpido e luminoso, trafitto dalle cime appuntite degli alberi pallidi nudi e luccicanti. I soli riscaldavano la cupola protettiva, scintillavano sull’oblò. Stesa a terra, avvoltolata nei teli, Eleanor udì dall’osi un monotono ticchettio.
Delfina le sedeva accanto, guardava fuori schifata ed assorta:
«Alzatevi», le sussurrò, «c’è una cosa che dovreste vedere.»
A qualche metro distante la noce, fra gli alberi, cadaveri animati su zampette meccaniche, con borracce di cellophane cucite al torace, curavano le piante e grattavano il suolo. Le creature erano cieche, con le palpebre cucite, ma veloci nell’intrico di radici con gli arti slogati e cartilagini torte. Leccavano le cortecce con le lingue purpuree.
Il ventre era montato alle zampe meccaniche e vi era avvitato un sigillo di terracotta: una S; da una trombetta sull’addome di macchina le creature spruzzavano escrementi. Le borracce traboccavano di sangue.
I mostri badavano all’oasi ignari di loro tre.
Delfina bussò al vetro a Farinelli attento a studiare, fuori, i movimenti degli esseri:
«Avevi detto nessuna forma di vita!»
«Queste creature non sono vive», Eleanor indovinò, «è come per i chilopodi, non capite? Rifocilliamoci, riallacciatevi il casco, usciamo: voglio convincervi di quanto ho visto nei tunnel.»
Consumarono una razione dalla riserva di viveri, indossarono gli scafandri, rientrarono la noce nel survizaino e, coi colpi in canna, avvicinarono i mostri.
Farinelli si mosse per primo, Eleanor lo trattenne: si spostò ad appena un passo dalle creature ma quelle, indifferenti, continuarono ad arrampicarsi sugli alberi e leccare le cortecce lucide. Lei chiamò il robot più vicino: gli occhi cuciti si torsero su di lui, e i mostri si fermarono dov’erano incapaci all’improvviso del mestiere di giardiniere, in preda alle convulsioni, con la bava alla bocca.
Ripresero lo loro cure.
«Cosa diavolo sono?», Delfina rabbrividì.
«Per parte umana tessuto mummificato databile almeno a duecento anni or sono», stimò Farinelli, «non appartenente al medesimo organismo: insomma i cadaveri sono stati fatti a pezzi e ricomposti direi a caso; per parte meccanica rilevo ingranaggi…»
«Non volevo davvero saperlo», lo azzittì l’esploratrice, «ma insomma di nuovo cose che non dovrebbero camminare.»
«Li chiamano carrion», disse Eleanor, «costrutti negromantici, di millenni in anticipo sui nostri automi: approccio differente, medesimo risultato.»
«Perché li disturba la vicinanza del robot?»
«Congegni che interferiscono, disturbi di frequenza: loro sono simbionti di un’altra volontà. Questi servono direi da giardinieri; da anticorpi o all’igiene personale. Prestatemi la baionetta.»
Delfina esitò, le porse la termo-lama, lei la affondò nelle untuose radici di uno degli alberi accuditi dai mostri. Scavò il terreno bianco polveroso, abbracciò quel tronco pallido e strappò.
Lì la terra bollì di un fiotto rosso.
Eleanor intinse nella pozzanghera che si allargava viscosa ai loro piedi, premette la mano sozza sul filtro dell’esploratrice:
«Rispondete: cos’è?!»
Delfina annusò, sbiancò dietro il plexiglas:
«Sangue.»
Lei affondò nel ciocco pallido schiantato:
«Cheratina: sono capelli», calciò la polpa bianca cosparsa sul terreno, «forfora, epitelio.»
L’esploratrice esterrefatta si voltò a Farinelli: l’automa analizzò tronco e polvere, annuì.
«Capite finalmente cos’è quest’oasi, questo mondo?»
Delfina imbracciò la carabina, ruggì, esplose l’ultimo intero caricatore, alla cieca, contro i nodi di piante che le chiudevano tutt’attorno. I proiettili incendiarono gli sterpi, e il fumo levò un puzzo di peli morti.
Gli esseri strillarono, si scossero dal torpore: bruciati o no che fossero dal fuoco si staccavano dalle cortecce e si schiantavano a terra, si torcevano in agonia.
Esalavano anneriti e fumanti, si scioglievano in scheletro, metallo e poltiglia. Si consumavano in una fiamma di luce nera che spandeva attorno a sé un alone di ghiaccio.
Eleanor tolse l’arma all’esploratrice, che ancora puntava il mirino laser sorda alla spia munizioni esaurite. La spinse contro un albero, la affrontò fissa negli occhi, la tenne per il bavero e accennò alla foresta:
«Calma. Ascoltate.»
Spento il crepitio dell’incendio, il tic-tac dei giardinieri mostruosi riprendeva daccapo nella cura di altre piante; altre zampe meccaniche, lingue ed artigli solleticavano per chilometri la chioma bianca ed abnorme.
«Vedete», Eleanor incalzò, «fino a che punto la superstizione degli Ammit, e la nostra incapacità di comprendere l’oscurità, hanno lasciato suppurare quest’abominio?»
«Un intero pianeta!», Delfina inghiottì, «È un orrore che non sopporto!»
Lei le strinse forte le mani:
«È un orrore che non si può sopportare, ma non possiamo affrontarlo allo scoperto, siamo piccole e sole, dovremo essere come morbi: scendere in profondità, conoscerlo qual è, guastarlo da dentro.»
Farinelli proiettò un ologramma, evidenziò minute macchie su una mappa dell’oasi:
«Rilevo cavità sotterranee ad un chilometro davanti a noi.»
Delfina lasciò cadere l’inutile fucile, si sciolse le cartucciere, conservò la baionetta nel fodero della cintura. Le strinse l’avambraccio, le batté su una spalla. Raccolse il survizaino:
«Vado avanti per prima.»
«Ora vi riconosco», Eleanor le sorrise.


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