Eleanor si rialzava nella nube di fumo e sabbia, Farinelli la agguantò alla cintura:
«In ginocchio, signora», la schiacciò contro il cemento nel fosso.
«Ehi!»
L’automa la spinse a una crepa nel muro. Attraverso la caligine, nella polvere che si posava, Eleanor vide, fra i tondini contorti, la folla lamentosa color cenere degli Ammit: si riaffacciava dalla selva tossica a arrampicarsi sull’altipiano.
I primi esitavano nel calpestare la rena annerita e vetrificata dai reattori dell’astronave: tremavano nelle tute, ci posavano le piante incerte, le ritraevano se croccolava, se esalava del fumo. Tentavano con gli attrezzi e gli scarponi da minatore il terreno scurito o bollente o viscoso. Gli altri li incitavano, grufolavano negli scafandri, battevano gli utensili in un applauso di ferro, li spingevano avanti.
«Per fortuna non ci hanno visto», Farinelli sussurrò; le indicava un affossarsi fra piloni di quel lungo corridoio di cemento, e a cenni suggeriva di strisciare fino a là, «finché ancora sono così stupefatti consiglio…»
Eleanor, attonita, non stornava da quella breccia:
«Cos’è accaduto su questo mondo, in neppure duecento anni? Guardali», domandava a se stessa e al valletto meccanico, «abitano metropoli-miniere e metropoli-raffinerie, lavorano come nel secolo XX, impiegano tecnologie evolute, riparano e costruiscono utensili e motori, i loro trisavoli sono sbarcati da astronavi, altre astronavi solcano il loro cielo, le riconoscono come tali ma si comportano da primitivi.»
«Altrettanto pericolosi», Farinelli insistette, «la prudenza ci impone innanzitutto di approntare un campo base sicuro, solo in seguito avvicinare i nativi.»
Eleanor si sporse su un altro lato dell’altipiano sull’esteso groviglio di paranchi e di tubi, su un confine abbacinante, nitido, di arsura color ocra e di acciaio avvelenato. Seguì fino laggiù con lo sguardo, poi con l’intuito, dove la vista non arrivava, quella pista di calcestruzzo, di travi. I cumuli gonfi di sabbia al di là, le macchine lucide ed efficienti dentro, le enormi turbine, le suggerivano fosse il vallo degli Ammit contro il soffio soffocante e polveroso del pianeta. Vide, come alle porte delle antiche città, sulla Terra, sepolcri improvvisati di pietre e rena secca; fili spinati, cisterne e carrozzerie saldati a farne bare e sudari e mausolei.
«Se loro non sopravvivono a labirinti e deserti», disse, «figuriamoci noi, non dureremmo una settimana. Tentiamo l’altra carta: la resa.»
«L’ospite è sacro presso molte culture», ammise Farinelli, «soccorrere nel bisogno.»
Eleanor nascose più ridosso al muro le granate e lo zaino, si slacciò le due pistole, tutto quanto aveva addosso di avveniristico per quel pianeta. «Inoltre», ammiccò, «sono abituati agli slogan: conoscono la Compagnia», regolò la vivavoce nel casco.
«Senz’altro, signora», la trattenne l’automa, «ma in quale lingua parlano?»
«Che domande: la nostra», Eleanor si stupì, «Il discorso registrato nella protesi dell’omuncolo era rivolto a loro…»
«… e ai media della galassia. Certi discorsi sono fatti per essere pronunciati, non ascoltati, tantomeno compresi: lo sapete signora, lasciate provare me.»
Farinelli si sporse dal ciglio del fossato, e la folla si fermò sulla scarpata. Il roboto recitò in ogni idioma contaminato da che l’uomo sulla Terra conosceva l’industria, ogni intreccio di lingue di altri mondi colonizzati. L’accento era mite, si esprimeva con grazia. Le belle mani scintillanti nei soli si congiungevano in una supplica accalorata, le braccia si spalancavano in un invito alla fratellanza. Quando tacque quello scroscio di sillabe Eleanor si affacciò dalla buca.
Gli Ammit le puntarono gli attrezzi, le grugnirono ostili. Si accorse soprattutto che guardavano Farinelli con quello che sembrava un feroce appetito. La folla si aprì con un fracasso di ferraglie e l’obsoleto borbottio di due motori: due goffi, poderosi montacarichi salirono per l’altipiano incitati dai minatori, le chele scattavano protese all’automa.
«Forse, signora», azzardò Farinelli, «una di quelle bombe potrebbe tornarci utile.»
«Scappa!», Eleanor all’istante riallacciò l’equipaggiamento, corse con il valletto nel corridoio di calcestruzzo. Gli Ammit si fermavano sulla sabbia annerita, i piloti dei montacarichi, con un ghigno belluino, spinsero sui pedali, sulle leve dei loro mezzi e staccarono la moltitudine con un rombo di diesel. Solcarono inesorabili il suolo vetrificato, saltarono nel fossato, sbriciolarono il fondo. Eleanor gli ebbe addosso. Offuscata dalle schegge e dagli spurghi, assordata dagli antichi, mostruosi motori, cadde supina nel pietrisco e nel fumo.
Strofinata la visiera dalla polvere, si vide addosso l’enorme zampa meccanica, il cofano ventrale gocciolante d’olio caldo.
Gridò. Si sentì strattonare, trascinata a schiena a terra a qualche metro dai mostri. Salva.
«State bene?»
Farinelli la afferrava alla collottola, la aiutava a rialzarsi, riprendevano a correre. Si lasciavano alle spalle l’area arsa dalle astronavi e scendevano a capicollo all’altro lato dell’altopiano.
Eleanor vide che i piloti dei montacarichi pestavano furiosi sui pedali degli ordigni, tiravano le cloche, si levavano dai seggiolini. Le macchine ragliavano, sbuffavano, ferme: s’impedivano a vicenda nel fossato di cemento.
«Santo Ford…», Eleanor bisbigliò. La preghiera le morì sulle labbra: in un rutto di fumo nero, all’impatto dei paraurti, la parete che tratteneva le macchine si crepò con una frana di sabbia.
Una pinza scattò fra le macerie e la polvere, mancò per un soffio di serrarle la gola. Farinelli la prese fra le braccia:
«Permettete, signora.»
«Più veloce!», e lo era accidenti, benché l’avesse in groppa!
I bipodi a metro a metro macinavano il tunnel, e i sassi, e la rena, si accumulavano nella fossa. Eleanor e il roboto non riuscivano a distanziarli, le chele dei montacarichi schioccavano su di loro; i rostri sfondavano le inferriate e le scalette che segnavano le sezioni del profondo camminamento.
Eleanor sentiva nel tossito dei motori l’ululato dei conducenti, la rabbia, la foia; e intuiva dal sordo strepito fuori, da un coro di rugli tutt’attorno all’altura, che gli Ammit, laggiù, si accodavano all’inseguimento, partecipavano benché lontani come si segue una processione. Le macchine sbriciolavano il fossato, lei e Farinelli correvano più veloce, s’infilavano nei corridoi paralleli, schivavano nelle cabine, nelle nicchie per le emergenze.
Gli ordigni li chiudevano negli angoli e il valletto, leggero, si accucciava fin sotto i ventri, sotto il vano dei motori, li sfuggiva alle spalle.
«La statistica, signora», l’automa la avvertì, «il mio logoramento, la struttura del tunnel, vogliono che non possiamo cavarcela in questo modo.»
Alta sulle spalle del roboto, sporgendosi sul deserto, al di sotto la pista, Eleanor si accorse che la fuga li aveva portati sulla schiena di una duna, un baratro di sabbia per decine di metri. Di fronte a loro nel tunnel di calcestruzzo, che percorrevano prede degli Ammit, con esigue speranze, le si offriva l’occasione di un ponte troppo basso perché le macchine ci si potessero chinare sotto, e all’apparenza troppo robusto per la furia delle tenaglie.
Eleanor attese che Farinelli fosse a una falcata dai piloni dello scavalco:
«Fuori! Salta giù!»
L’automa obbedì. Legati con i moschettoni e le cinghie, avvinghiati l’un l’altra, affondarono fino al petto nella sabbia rovente: scivolarono in basso.
L’assordante strofinio di rena nei microfoni del tricasco le attutì lo schianto orrendo, contro le travi del ponte, del primo dei montacarichi e le grida dell’Ammit.
Eleanor, scivolando a testa in giù su quel ruvido tappeto d’ocra, vide l’altro ordigno sprizzar scintille nella frenata, cozzare contro il ponte, rovesciarsi su un lato. Il pilota si raddrizzò le due bombole e lo scafandro, tornò sul seggiolino, riaccese il montacarichi. Sporse dal fossato le due pinze mostruose, pestò la scarpata con il piede meccanico.
«… e tirando a indovinare con i comandi», Eleanor dettò l’appunto al valletto, «quasi non conoscesse gli strumenti che impiega.»
«Soprattutto, signora, non ha intenzione di abbandonare l’inseguimento. Guardate però», squillò Farinelli steso prono su quell’onda di sabbia, «forse laggiù sarà costretto a fermarsi.»
Nello uadi sul fondo di quel soffice burrone, nascoste fino a lì dalle gobbe delle dune, Eleanor scopriva grandi vasche di liquame vaporoso, ribollente e dall’aspetto ripugnante. Tutt’attorno reticoli tranciati, spinato attorcigliato e cartelli con il teschio.
Lei d’istinto puntò i piedi nella sabbia, si afferrò alla terra gialla: le svanì fra i guantoni. Il salto, l’altezza, la pendenza li trascinavano inesorabilmente in quelle pozze mortali: lei stessa, Farinelli, l’indigeno nel montacarichi che ora sbraitava a pochi metri da loro.
«E noi?»
Il valletto le indicò le lunghe barre di acciaio che, a pelo di superficie, affondavano le pale intatte nei liquidi e giravano, lente, e mescolavano quei veleni.
«Forse per un funambolo sono larghe abbastanza», Eleanor rabbrividì.
«Il mio sistema garantisce quell’equilibrio pur reggendovi fra le braccia, signora, con tutto l’equipaggiamento. E il casco vi protegge dai miasmi.»
Eleanor guardò l’Ammit nel montacarichi che, più si avvicinavano ai pozzi fetidi nel fondovalle, più scendeva rapido, li aveva già superati. E le parve anche di scorgere, sul fosso ormai lontano, la turba di tutti gli altri che rinunciava alla caccia.
La macchina affondava zampe all’aria nella sabbia, le chele scomparivano sepolte. E l’Ammit sprofondava, riaffiorava, annegava, continuava nella sua furia a scalciare con i pedali, strapazzare la cloche, dava pugni sui pulsanti sul cruscotto e sul quadro.
«Possiamo soccorrerlo? Ci sarebbero riconoscenti», e indicò quelle figure, piccole e grigie, che apparivano e scomparivano sul bordo dell’altipiano.
Farinelli non rispose, si girò su se stesso. Ora era disteso pancia all’aria con il capo verso il ciglio del dirupo, i piedi puntati verso gli immensi depuratori pronto alla piroetta sulle pale che mescolavano. La invitò, con un gesto garbato, a nuotare nella sabbia fin nel grembo di lui. La abbracciava di nuovo.
Il bipode scendeva in un solco nella rena, scavò la terra nera con gli arti che si torcevano. Il nitrito furibondo dei cavalli-motore, o lo sperone imbullonato sull’inguine, non vincevano, com’era stato per il cemento, la sabbia docile e silenziosa che s’insinuava nei filtri, nei tubi di scappamento.
Eleanor vide l’indigeno disperato che provava a sganciarsi impedito dai sobbalzi, le lamiere dell’abitacolo lo chiudevano in una gogna. Nelle viscere della macchina arroventate dai soli l’urto spargeva il carburante volatile, l’ordigno s’incendiò. Protese disperato una chela verso Eleanor, lei dovette imporsi di non tendergli la mano.
Il bipode sfrigolò l’istante dopo in un lago tumultuoso di cerula ammoniaca. La poltiglia grigia e carnea del pilota, le viscere e la tuta, le cervella e l’amianto, galleggiavano sull’acciaio lucidato dagli acidi.
Eleanor si abbracciò più stretta a Farinelli. Chiuse gli occhi, inghiottì. Trattenne il fiato.
«Le nostre probabilità sono molo elevate», il roboto disse, «ho calcolato la velocità di caduta e l’intervallo dei rotori nelle vasche, e…» la nota limpida dei metalli che cozzavano, una sana sensazione di appoggio e di equilibrio, le diedero il coraggio di guardare e di respirare.
La nausea di una piscina d’acque nere e poltiglia la prendeva alla gola nonostante il tricasco. Senza i filtri dello scafandro, ne era certa, sarebbe morta, svenuta già a chilometri da quel pelago di schifo. Muffe, escrementi e carcami galleggiavano nell’olio su uno strato di orine, e al di sotto scoppiavano tempeste d’acido che sfogavano in superficie in geyser avvelenati.
Agganciato con le suole magnetiche dei piccoli piedi che imitavano scarpe, Farinelli stava immobile sull’asse stretta e leggera che affondava in quell’incubo. Un piede innanzi all’altro, composto ed elegante: con lei più rannicchiata nel suo grembo e lo zaino e le granate che fungevano da contrappeso.
La barra si allontanò da quel lato della cisterna, e l’automa si spostò verso il centro, il rotore, dove l’asse era più larga, e le sembrava oscillasse meno. Nella lenta e nauseante traversata Eleanor misurava l’ampiezza di quella vasca: «lago», si schifò, «dovrebbe essere la parola». I vapori che esalavano da quel brodo si addensavano tanto fitti da nasconderle l’altra riva.
«È fatta?», si sforzava a non vomitare.
Gli occhi dell’automa scintillarono di calcoli, di un cerchio di luce verde, sezione di circonferenza, diametro, raggio: Farinelli si spostò dal rotore all’estremo più sottile della barra mescolatrice. Vicino al bordo vasca:
«Eccoci. Ma…»
I fumi diradavano. Calmi e silenziosi sul ciglio della piscina, a decine con mazze, e catene, e fucili antiquati, gli Ammit a cenni le intimavano la resa.
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