C’è una logica sottile, impercettibile, quasi perversa: si perdono migliaia di preferenze, il popolo volta le spalle ad un modo di fare politica in cui è ormai difficile rivedersi
Le parole sono importanti, diceva in un film Nanni Moretti. Una di quelle a cui la definizione è stata più volte riscritta è certamente “sconfitta”. Una volta, dopo un’elezione, si analizzavano con circospezione le ragioni che avevano condotto ad un risultato contrario. Non si accampavano scuse, si accettava con onore il verdetto delle urne. Oggi non più: all’indomani di una qualsiasi consultazione elettorale sappiamo già cosa aspettarci. L’elettorato deve sentirsi parte di qualcosa di grande, non è ammissibile o credibile un progetto che non incontri il successo popolare. Pertanto anche i linguaggi diventano suadenti e confusionari.
Schema comparativo dal quale si evince chiaramente che il PdL ha vinto le elezioni.
Il PD ha vinto. Ha preso circa 250.000 voti, ma Crocetta è presidente. L’UDC esce vincitore. Ha totalizzato il 38% di preferenze in meno di cinque anni fa. Ma ha vinto comunque.
E il PdL? E anche il PdL, sconfitto e stracciato nella consultazione elettorale di domenica 28, è ancora vivo e vegeto secondo Angelino Alfano. Ha preso il 73% di preferenze in meno, ben 654.000 persone hanno deciso che i membri di questo partito non meritano fiducia. Ma il PdL ha, per dirla con Bersani, “non vinto”. Addirittura, ci sarebbero alcuni dati di cui compiacersi. No, non quelli relativi ai suicidi di parlamentari cui faceva riferimento Crocetta, nella malaugurata ipotesi di un taglio dello stipendio parlamentare a 2500 euro mensili.
Anche alcuni luogotenenti provinciali del partito di Berlusconi cantano vittoria: a Catania, ad esempio, la moribonda creatura made in Arcore si conferma primo partito, seppur con una spaventosa emorragia di consensi. Ma va tutto bene, davanti alle telecamere i leader locali ostentano una sicurezza da premio Oscar. La realtà è un’altra: n
on c’è più il partito del 61-0, forse perché il coordinatore di quel miracolo siciliano è ormai ridotto ad uno striminzito 15% alla corte di don Raffaele, autentico padrone della politica isolana.Musumeci, dal canto suo, ha invertito la rotta che ha tenuto sui suoi diffusissimi manifesti: dallo scontato e a tratti minaccioso “Mi fido di Voi”, è passato al laconico e sconsolatissimo “è stato un errore fidarmi dei siciliani”. Bisognerebbe valutare se in gioco sia entrato il concetto di fiducia, o se Nello Musumeci abbia pagato, al carissimo prezzo della seconda sconfitta nella corsa alla poltrona di governatore, lo scotto di appartenere ad un partito ormai ridotto ad un carrozzone viaggiante, dal quale chiunque può salire e scendere in ogni momento.
Troppi scandali, troppa disaffezione nei confronti di un leader seguito troppo ciecamente: l’anello del potere ha fatto perdere la testa anche agli ex missini, di cui Musumeci è rappresentante cui va riconosciuto l’onore delle armi. Un pizzico di umiltà avrebbe portato giovamento. Adesso, solo macerie e rovine.
Ma lo sbaglio che il PdL non vuole riconoscere è stato un altro. Le logiche del potere locale hanno annientato il centrodestra. L’ago della bilancia è stato Micciché, alienato nella nuova dimensione sicilianista di Grande Sud-Mps. Ma il PdL (un partito senza popolo o un popolo che non ha più un partito?) non voleva certo inciuciarsi nuovamente con Lombardo, benché solo l’ex Viceré avrebbe potuto salvare questa squadra scalcinata dalla demolizione elettorale.
Esame di coscienza: è la prima attività in cui dovrebbero impegnarsi gli alti gradi del PdL. Perché non è ostentando finte incazzature e prendendosela con chi non ha “spinto” sul candidato che riusciranno ad evitare la prossima, inevitabile debacle elettorale. Inutile inneggiare a defunti cameratismi e a logiche di appartenenza che ormai non sono più parte di questa politica. E’ difficile sentirsi parte di un progetto comunitario, quando i leader mangiano ostriche e bevono champagne e la manovalanza si nutre di locuste e miele selvatico, in ossequio ad una perenne penitenza in una regione desertificata da anni di malapolitica.
Servono nuovi interlocutori che siano in grado di parlare il linguaggio della realtà che è cambiata, che non si perdano in chiacchiere e slogan riciclati, talvolta in perfetto stile berlusconiano. Quel modello di politica è ormai morto e sepolto, ne dà notizia il 52% di astenuti alla consultazione di domenica.
Fintanto che l’introspezione non avrà preso il posto della (presunta e sedicente!) strategia politica, sarà difficile attendersi una riproposizione del centro destra in una posizione di governo per l’isola.
La strada è tracciata. L’anno prossimo si vota per le comunali. E a Catania, Enzo Bianco potrebbe già gongolare…