Se la storia del Cinema ha subito e assorbito l’impatto delle emigrazioni è perché questi due fenomeni sono incontrovertibilmente legati al Novecento, secolo che ha sublimato l’arte visiva consegnandola per sempre alla storia e rafforzando, d’altra parte, la convinzione che le connessioni telematiche non potevano far altro che rendere il fenomeno migratorio necessario come la forza di gravità.
È evidente che, dal momento in cui trattiamo di personalità artistiche, dovremmo considerare il migrare necesse est come una questione politica oppure professionale, più che legata al mero mantenimento dell’esistenza. Crocevia del via-vai è stata naturalmente l’America, paese ospite per ovvia e palese vocazione storica ma, differentemente da quanto si possa ad istinto intuire, non il solo bacino di raccolta; se infatti durante il nazifascismo Hollywood è stato il refugium peccatorum dei dissidenti verso il totalitarismo, al contrario durante il maccartismo furono non pochi i casi di artisti fuggiaschi che preferirono, con un’ “emigrazione al contrario”, tornare a lavorare nella “neutrale” Europa.
Gli Hollywood Studios nel 1922. Photo credit: Pubblico dominio
1/Emigrazioni: Via dal III Reich, o l’espressionismo ad Hollywood
Determinante in Hollywood è stata la corrente dei registi tedeschi confluiti nel sistema californiano a partire pressappoco dagli anni Trenta. L’approdo di una certa idea di ispirazione germanica all’approccio artistico portò il cinema statunitense a virare notevolmente sull’espressionismo, col quale le produzioni hollywoodiane ebbero sempre un grande debito. Il caso più marcato di regista tedesco sbarcato per questioni politiche a Hollywood è Fritz Lang, ebreo che rifiutò di collaborare col III Reich e che pure tuttavia negli Stati Uniti si trovò assai spesso le mani legate da imposizioni delle produzioni, che gli diedero non indifferenti seccature.
Otto Preminger seguì di fatto la stessa parabola e funge da doppio esempio, perché optò poi per la fuga anche dagli Stati Uniti durante il maccartismo, subito dopo aver girato The Man with the Golden Arm. L’ espressionismo di marca hollywoodiana ebbe un effetto altalenante, in quanto tentò di coniugare, come sempre accadeva in Hollywood, il talento creativo degli autori con il divismo degli interpreti, che in parte lo andavano mitigando e volgarizzando. I debiti che la storia del cinema americano, grazie all’emigrazione dal Reich, ha con tale oscura e tormentata concezione germanica della settima arte sono comunque indubbi.
Ebbe la medesima sorte l’austriaco Billy Wilder, che propose però un cinema di genio, personale, variegato, raffinato come quello europeo, ma più affine alla magniloquenza statunitense, che si evinceva incontrastata specialmente nel ritmo delle sue commedie. L’ancestrale potenza germanica del suo cinema rivive comunque parzialmente in alcune sue pellicole (La fiamma del peccato, Viale del tramonto) e in maniera radicale e assoluta in Giorni perduti, che è a tutti gli effetti un eterno manifesto di tardo espressionismo ad Hollywood.
D’ altronde anche Marlene Dietrich (musa del grande Josef von Sternberg, un altro austriaco migrato giovanissimo in America, come anche Erich von Stroheim), pur presentandosi come archetipo di “femmina germanica” (e ancor più berlinese), immagine mai rinnegata, deve parte del suo mito “maturo” a fughe e rifiuti nei confronti della Germania nazista e il suo sostegno alle truppe alleate durante la II Guerra mondiale, quando già aveva cittadinanza statunitense, è un fatto. Non a caso ebbe non poche problematiche nel dopoguerra, quando in patria acquisì di fatto lo scomodo epiteto di traditrice per buona parte dei vinti.
2/Emigrazioni: Fuga da Hollywood – Joseph Losey e il maccartismo
Parlando di Preminger abbiamo portato un esempio di doppia emigrazione, a cui ci ricolleghiamo con l’illustre caso di Joseph Losey, genio diseguale, spietato e dallo stile spesso nervoso ma mascherato da una sobria concezione classica della struttura filmica. Fu autore di un cinema non sempre facilmente recepibile dallo spettatore e eccellente emblema storico del sopracitato esodo di alcuni artisti dagli USA durante il maccartismo. Mentre si trovava in Italia, nel 1951, venne richiamato in patria per testimoniare riguardo ad attività antiamericane; prese così la decisione di esiliarsi in Gran Bretagna, tornando peraltro a lavorare sotto pseudonimo per evitare complicazioni. A tutti gli effetti, il tormento del personaggio portò ad una radicalizzazione degli elementi “europei” del suo cinema già autoriale e anti-sistema nel periodo statunitense. Idealmente, potremmo dire di Losey che egli è pienamente un autore europeo (se non conoscessimo i suoi dati anagrafici), che il suo cinema non è stato americano nemmeno in America e che il suo trasferimento nel Vecchio Continente, ennesimo di tante emigrazioni di artisti, sembra essergli stato decretato dal destino.
3/Emigrazioni: La New Hollywood degli italoamericani
Marlon Brando in una celebre scena de Il Padrino. Photo credit: TRF_Mr_Hyde / Foter / CC BY
Padroni della New Hollywood sono stati molti statunitensi di chiara e fiera origine italiana: tra i principali troviamo Martin Scorsese e Francis Ford Coppola alla regia, e chiaramente Pacino e De Niro tra gli interpreti più conosciuti. Paradossalmente, pur facendo un cinema totalmente distante dai paradigmi europei, e certamente assai distante da quello italiano del periodo d’oro, sono questi ad aver reso leggenda con la più impensabile e feroce aderenza realistica una certa idea di italianità trapiantata in America, prima fra tutte quella del familismo amorale (non sempre legato ad una sola questione mafiosa).
È tipicamente statunitense e per nulla “europeo” Mean Streets di Scorsese, eppure quale film – tra una canzone napoletana di Giuseppe Di Stefano e un’altra di Carosone – è stato più efficace nel trattare le emigrazioni e l’italianità in America (anche se a sprazzi)? Forse la trilogia de Il padrino di Coppola, specialmente il secondo episodio, che facendo una rievocazione in flash-back del trasferimento a New York della famiglia siciliana nel primo Novecento si propone come un lungometraggio di portata universale, un prodotto artistico di storico monumentalismo, “ulteriore” ad ogni filone gangsterico o drammatico cui talvolta si vorrebbe rilegarlo, e che fornisce un magnifico trattato sulla comunità a New York.
D’altronde, per tornare al rapporto tra Hollywood e l’emigrazione italiana del primo Novecento, basti ricordare che il primo e più grande divo nella storia del Cinema è il “nostro” pugliese Rodolfo Valentino, che approdò nel Nuovo Mondo – come girovago – nel 1913, per rimanervi fino alla prematura morte.
4/ Emigrazioni: Un dissidente sovietico di primo piano
Non può mancare un caso di dissenso nell’Europa orientale, anche perché è impossibile non citare l’Unione Sovietica quando si fa riferimento a sistemi che stritolarono gli artisti nel XX secolo. Il braccio di ferro tra restrizioni e imposizioni tra il CCCP (Urss) e Andrej I. Tarkovskij durò circa un ventennio finché, estenuato, nel 1982 il genio russo decise di non fare più ritorno in patria, mentre si trovava in Italia. La sua emigrazione, o meglio esilio volontario, e l’accoglienza che ricevette in Toscana regalarono al nostro Paese il bellissimo Nostalghia, che si avvalse di meravigliosi esterni della provincia senese con omaggi al paesaggio e alla pittura di Piero della Francesca. Era comunque manifesto che la sensibilità lirica di Andrej I. Tarkovskij non poteva confarsi in alcun modo all’infantile materialismo imposto dal comunismo, né al cinema celebrativo in voga nel sistema sovietico. Entrambe le imposizioni erano avverse all’aura mistica e liturgica dell’immagine e della parola che Tarkovskij ha espresso con la sua concezione estetica, nel tentativo di fare cinema scolpendo il tempo.
L’ incontro e lo scontro di culture differenti, nella vita come nel cinema, fertilizza i terreni, e questo è facilmente evincibile da quanto scritto. Tuttavia questo approfondimento sulle emigrazioni di cineasti non ha una tesi politica di fondo, né pretende di averla: il cinema nazionalpopolare nato nella Germania hitleriana, nell’URSS comunista e addirittura nell’Italia del Ventennio, seppur sempre calunniato, ha una dignità artistica che non merita di essere trascurata. La critica cinematografica che ha agito in questo senso, per motivazioni politiche estranee alle dispute sugli interessi artistici, ha reso infatti un pessimo servizio alla comprensione del fenomeno nel Novecento.
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