"Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo."
(Erri De Luca, Solo Andata)
Enea, l'eroe senza patria
È apparentemente assurdo che il poema nazionalista di Roma, l'opera che per due millenni e più ha celebrato, e continua a farlo, le antiche e nobili origini dell'impero di Augusto, si apra vedendo il proprio eroe, Enea, definito . D'altra parte, l'epica dell'Eneide è assolutamente atipica, tanto da rendere il poema aperto a svariate chiavi di lettura.
In un certo senso, si potrebbe dire che le vicende di Enea e dei fuggiaschi Troiani, così come Virgilio le ha poste, raccontano anche la storia di un sofferto esodo verso l'ignoto e di una travagliata lotta per l'integrazione. Un mito di migranti. Tali si sentono i Troiani guidati da Enea - il miserabile volgus, la folla infelice -, e come tali vengono accolti nel corso delle loro faticose peregrinazioni.
Per ragioni che ancora stentiamo a comprendere, Virgilio si diceva insoddisfatto dell'Eneide, tanto da supplicare l'amico Vario di non darla mai "alle stampe", dal momento che gli era stato letteralmente impedito di distruggere i manoscritti di propria mano. Vario non ebbe però cuore di rispettare le volontà dell'amico e collega: così l'Eneide, con tutte le sue incompiutezze formali e le sue contraddizioni, vide comunque la luce e servì al suo scopo di glorificazione di Roma, con grande compiacimento di Augusto e senza il consenso del suo autore. Quello che, forse, nessuno dei due si sarebbe immaginato è lo straordinario successo bimillenario che riscontrò l'Eneide. Successo dovuto non solo all'impressionante qualità formale del poema, preso a modello stilistico e linguistico per i secoli successivi, ma anche per la modernissima umanità che Virgilio gli ha saputo dare.
L'occasione di mettere in luce l'umanità, o il suo contrario, dei personaggi dell'Eneide nasce dalla sofferenza. Anticamente come oggi, il flusso migratorio dei Troiani è messo in moto dalla guerra: la decennale guerra di Troia ha portato alla distruzione della patria di Enea. Per questo motivo è iniziato il viaggio dei superstiti Troiani verso l'Esperia, l'Occidente, l'Italia sconosciuta: un viaggio doloroso perché non voluto e subìto, innanzitutto da Enea stesso, ma anche necessario. Le parole dell'eroe sono costantemente intrise di amarezza e rassegnazione, di senso di impotenza e di rimpianto per una patria e una vita, ormai perdute, alle quali non avrebbe mai volontariamente rinunciato.
Italiam non sponte sequor - non di mia volontà inseguo l'Italia: con queste parole Enea, nel libro IV del poema, si rivolge a Didone, regina di Cartagine che ha accolto lui e i suoi compagni con grande umanità.
Proprio il motivo dell'accoglienza riservata allo straniero e dell'atteggiamento nei confronti dell'ignoto è un altro esempio della profondità dell'analisi umana che Virgilio ha compiuto nell'Eneide. Gli incontri dei profughi con la gente del posto, le parole che individui di popoli diversi scambiano tra loro sono così attuali - meglio, senza tempo - che, decontestualizzate, potrebbero essere pronunciate oggi senza suonare come anacronistiche.
Un esempio di incontro positivo è quello tra i profughi e la regina fenicia Didone, a partire dal libro I dell'Eneide: a Cartagine, dove i Troiani giungono in seguito a un naufragio, sembra si possano gettare le basi per una felice convivenza interraziale. Si tratta, però, di un'integrazione mancata: Enea, si sa, sarà ancora costretto profugo dal Fato - e ancora contro la sua volontà -, perché il suo destino è quello di approdare in Italia.
La diffidenza iniziale, che nasce dall'esperienza di precedenti rifiuti, è espressa da un anziano Troiano, Ilioneo, alla corte di Didone: "Ma che popolo è questo? [...] ci negano il riparo di una spiaggia, muovono guerra, ci vietano di stare sulla riva". C'è una richiesta di comprensione, prima ancora che di ospitalità: "[...] osserva più da vicino le nostre vicende". E la comprensione di Didone è quasi immediata: l'umanità consente alla regina di accantonare la naturale diffidenza e di individuare, dietro all'apparente diversità degli stranieri, una comunanza di sventure. Anch'ella, con il suo popolo, ha conosciuto il dolore dell'esodo. La sofferenza la accomuna ai Troiani e la spinge a soccorrerli, a riconoscerli come uguali a lei, a superare il senso di alterità di fronte agli stranieri.
Come già accennato, nonostante l'accoglienza dei Fenici Enea, per suo destino, è costretto a rimettersi in viaggio. Giunti al settimo anno di peregrinazioni dopo la distruzione di Troia, i profughi sono ormai ossessionati dalla necessità di trovare una sistemazione stabile. L'esasperazione dell'incessante vagare, di inseguire una meta, l'Italia, che sembra sempre più irraggiungibile, quasi sfuggisse volontariamente ai Troiani, è ormai intollerabile, soprattutto per le donne. Stremate "Implorano una città, le angoscia la fatica del viaggio per mare" (Eneide V 617), tanto che, complice anche un piccolo incoraggiamento divino da parte di Giunone, arrivano a dare fuoco alle navi pur di porre fine all'interminabile viaggio. Dopo
aver concesso ai compagni più stremati, donne e anziani soprattutto, di stanziarsi in Sicilia, Enea riprende la via per raggiungere il Lazio.
È forse l'incontro/scontro con alcuni dei Latini a suonare, per noi, più tristemente familiare: l'arrivo dei Troiani e la prospettiva di un'alleanza e di una convivenza con gli stranieri scatenano una vera e propria ondata xenofoba, guidata dal giovane Turno, re dei Rutuli. La guerra, seppur breve, che ne consegue non fa che allontanare ancora una volta da Enea la speranza di poter trovare una serena stabilità. Il sospetto e la diffidenza impediscono un'immediata e pacifica integrazione, che è comunque destinata a sopraggiungere, ma ostacolata dalla violenza.
I Troiani vogliono conquistare il potere e il sangue delle due razze verrà mischiato: questa "propaganda" antirazziale dilaga e trova terreno fertile tra i Latini. Secondo il generale latino Numano Remulo gli immigrati non hanno voglia di lavorare, vengono per rubare le donne, hanno tradizioni diverse, troppo diverse (Eneide IX): la tirata razzista non suona nuova né lontana.
Eppure, le parole di Giove nel cosiddetto epilogo celeste dell'Eneide (libro XII) non potrebbero essere più chiare: il popolo romano nascerà dall'unione di Latini e Troiani, dalla mescolanza delle razze, una stirpe mista - genus mixtum. E l'inarrestabile forza dell'impero sarà anche dovuta alla natura intrinsecamente meticcia delle sue origini e al sentimento di pietas che è eredità dell'antieroe per eccellenza, Enea.
"Ricordo bene di essere cresciuto da straniero
come sei tu adesso [...]
tanto che non potrei mai rifiutare aiuto
a uno straniero, quale sei tu ora. Perché
so bene di essere un uomo, e so che il domani
non è mio più di quanto sia tuo"
[Teseo al vecchio Edipo ormai esule]
(Sofocle, Edipo a Colono 562 ss.)