Magazine Pari Opportunità

Enough is enough – Parte 2

Da Femminileplurale

Sottotitolo: Liberazione al guinzaglio

     “Ma quali ideali, macchè contenuti,
   siamo fottuti animali
   nemmeno troppo evoluti”
   Kaos One
Greg Simkins,

Greg Simkins, A ready defense

Spesso ho sentito inneggiare alla liberazione (anche sessuale) e all’autodeterminazione delle donne e ho pensato: bene!evvaaai! Mi cadono però le braccia quando scopro che si propone che tale liberazione avvenga attraverso un ulteriore asservimento alle strutture patriarcali. Ho sentito spesso riferirsi alla prostituzione come ad un momento di autodeterminazione sessuale della donna, come ad un modo di vivere liberamente la propria sessualità. Tuttavia mi sorge come il sospetto che la definizione: “il mestiere più antico del mondo”, contenga in sé un suggerimento che sarebbe il caso di tenere presente più spesso. Per chi è il mestiere più antico del mondo? Facile, per le donne. Ecco, allora a me sembra che la prostituzione sia l’effetto più evidente e radicale di una struttura gerarchica che pone un genere al di sopra dell’altro. Senza contare il contesto più ampio, quello della società in cui viviamo che spinge le donne a credersi libere se in fin dei conti assecondano quel ruolo, ridipinto per l’occasione nei colori sgargianti della trasgressione e del divertimento, che altro non è che il solito modello oblativo o di servizio (sia esso sessuale, di cura ecc).

Quello che ci propone la società in cui viviamo (patriarcale e capitalista) è una liberazione controllata, una liberazione al guinzaglio.

Tutto ciò ovviamente giustifica un modello maschile che trova nella virilità e nell’esuberanza sessuale il suo nucleo fondamentale. Al di sotto di tutto questo ancora il riferimento al presunto dato biologico. Lo sapevano bene gli amici positivisti che a fine ’800 teorizzavano con piglio scientifico (e con quella pignoleria che mi fa intenerire e rabbrividire insieme)  una “crisi generativa” più frequente nel maschio (ogni due, tre giorni) e meno frequente nella donna (ogni 15 giorni), con cui si giustificava la necessità non solo dell’esistenza della prostituzione ma della sua regolamentazione, del suo controllo.

L’Italia è un paese provinciale, lo sappiamo, ce lo dicono sempre e ce lo diciamo da sole, pensiamo che sia sufficiente mostrare un paio di tette (o di qualcos’altro) per compiere la nostra magica liberazione dalle catene che ci opprimono. Ma quale liberazione c’è nel mostrare le tette se questo è esattamente quello che la cultura mainstream auspica per noi?

Se in alcuni contesti il gesto è effettivamente spiazzante e ha un effetto preciso sul simbolico (le proteste delle Femen*), in molti altri casi il gesto diventa grottesco perché a fronte della volontà di “liberarci” non facciamo altro che giungere ad attuare il nostro fine, il nostro fine in quanto donne: essere corpi, essere corpi a disposizione di un sguardo (maschile), oggetti del piacere e del diletto altrui. Il patriarcato e il capitale (sì, pure lui) ringraziano**.

Scontiamo, ahimè, l’effetto di quella che qualche saggia studiosa ha chiamato raunch culture ovvero un insieme di fenomeni che derivano da una superficializzazione delle istanze femministe (azione tipica del patriarcato) e di un’inversione di atteggiamenti ad esso funzionale.

Ecco allora che essere libere e liberate consiste nel rendersi oggetti sessuali, rendersi quello che il patriarcato ha sempre voluto che fossimo ma consapevolmente, perché lo decido io, perché sono padrona del mio destino… perché io valgo. A fronte di questo allora trovano senso tutta una serie di pratiche che si pongono e vengono definite come forme di libertà.

Ed è una posizione comoda e non me ne vogliate un po’ borghese…pensate che noia se la sinistra (?) e il/i femminismo/i dovessero ancora star qua a criticare patriarcato e capitalismo. Convinciamoci che tutto quello che patriarcato e capitalismo ci fanno fare sia una nostra libera scelta e il gioco è fatto. Una magra consolazione per i miei gusti.

Se andiamo al di là del valore e del senso che conferiamo a questi atti e li confrontiamo con gli atti di libertà appannaggio dell’altro genere ci rendiamo conto che la nostra libertà è inevitabilmente subordinata e condizionata dal nostro stesso genere. Anche con il nostro atto di libertà/liberazione siamo ricondotte a quello che è stato per secoli il nostro ruolo, e a quello che per cui in teoria stiamo combattendo.

Ignorare questo fatto è voler mantenere lo status quo.

Ed è irresponsabile e ancora borghese se nel mantenimento di questo status quo e nella difesa della prostituzione ci dimentichiamo che la maggior parte delle persone che svolgono questo lavoro sono donne la cui libertà è ancora più limitata, che socialmente hanno meno possibilità di scelta, che quella precisa scelta è meno libera e deriva dalla necessità di sopravvivere adattandosi alle limitate possibilità che il mercato offre loro.

È considerabile come “potere” essere ricercate da un uomo che ha bisogno di “prestazioni” sessuali e che paga per esse o è piuttosto dover assecondare un modello preciso di relazione tra i generi che è frutto del dominio e della superiorità di un genere sull’altro?

* La protesta delle Femen coinvolge il corpo, tutto il corpo, ed è l’atteggiamento che quel corpo assume a creare una rottura rispetto alla rappresentazione e al contesto tradizionali in cui siamo abituati a vedere corpi di donne nudi. L’imposizione aggressiva della propria nudità enfatizzata dagli slogan che sono gridati, enfatizzata dal movimento che quei corpi compiono, dallo straniamento che provocano le nudità rispetto ai luoghi in cui esse vengono “esibite”, rompono lo schema a livello simbolico. Non siamo di fronte ad un corpo-oggetto di sguardo, ma corpo-soggetto di azione politica.

**Sul felice e duraturo sodalizio tra patriarcato e capitalismo (forse) Enough is Enough – parte 3.


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