Magazine Diario personale

Eravamo bambini abbastanza

Creato il 26 luglio 2013 da Povna @povna

Mentre era in visita dall’Amico Mostro, il suo babbo (Lupo di Mare), proprio sul crinale dei saluti e degli addii, ha regalato alla ‘povna questo libro. Lei – che ben conosce la finezza di Lupo di Mare, i suoi gusti attenti, e la sua comprovata competenza letteraria – grata e incuriosita, già sulla via del ritorno, vi si è gettata a corpo morto, l’ha finito in una decina di ore, nelle quali quasi non ha fatto altro, e oggi ne parla al venerdì del libro.
Eravamo bambini abbastanza di Carola Susani, è stata una scoperta inaspettata e molto bella. A metà tra romanzo di formazione e romanzo di viaggio, una sorta di on the road paradossale dell’infanzia, racconta la storia di un gruppo di bambini che attraversano l’Europa da Nord-Est (Ucraina) verso Sud-Ovest (Italia), al seguito di colui che si rivela un padre-padrone assai sui generis, figura dall’ambigua polarità morale. Il Raptor, infatti (questo il nome che gli viene dato dalla banda), non è il loro genitore biologico, ma colui che li ha rapiti, sottraendoli da lingue, stati, famiglie, realtà diverse, per renderli i suoi compagni di viaggio e di avventura. Sono sette: 4 maschi e 3 femmine e tutti e sette hanno iniziato a seguirlo dopo un atto di (misurata) violenza. Eppure tutti e sette – novelli bambini di Hamelin – hanno continuato la strada, sua sponte, insieme al loro disadattato Pifferaio. Allo sguardo della gente appaiono nomadi, o zingari, e la loro vita randagia si nutre dei classici espedienti: elemosina, musica ambulante, furtarelli (la voce narrante, dell’ultimo rapito, Manuel, autodiegetica, allude anche, a un certo punto, alla prostituzione). Eppure quello che prevale nel racconto (reso dalla prospettiva protetta del post factum: Manuel rievoca i suoi mesi con il Raptor quando oramai è stato ritrovato e riconsegnato alla famiglia, ed è tranquillo a casa) è una dimensione di libertà, di divertimento, di strana leggerezza. I bambini e il loro adulto si amano, se pure di un amore paradossale e ruvido, si danno regole, intessono, senza corde, autentici legami.
E’ proprio questo corto circuito tra il punto di vista di un’esistenza tradizionale, auspicabile, e moralmente giusta (affidato al lettore, che condivide con Manuel l’orizzonte valoriale nel quale si colloca la dimensione del presente) e il mondo libero, con regole ferree eppure assai diverse da quelle della comunità istituzionale, così come accettate socialmente – un universo intessuto delle avventure, degli scherzi, ma anche della terribile serietà che appartiene all’infanzia – a intridere la lettura del romanzo di una fascinazione profondamente disturbante, perché chi legge – pur consapevole di quale debba essere l’unica istanza morale delegata a interpretare la vicenda – viene continuamente attirato nel gorgo, quasi costretto, ottavo della banda, a lasciarsi rapire insieme agli altri, seguendo il Pifferaio.
Nel mezzo, avventure, racconti nel racconto (affidati ad Alex, uno dei bambini, cantastorie del gruppo, che costruisce per ognuno dei compagni genealogie affabulate e seducenti); e anche i modelli tradizionali del genere: Senza famiglia, Oliver Twist (citato con un richiamo tematico quasi puntualmente) – ma anche appunto Browning e il suo Pied Piper, i Bambini bonsai di Zanotti, Schwob e La crociata dei bambini.
Complessivamente, il romanzo è una (rara) prova di bravura narrativa nel panorama italico. Con una strana conferma: pare che (Pinocchio, Enrico e Giannino docunt, e fanno scuola inconsapevole) qualcosa di buono, dalle nostre parti, si scriva quasi solo esclusivamente parlando di bambini.


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