Prima di questo libro, se qualcuno mi avesse parlato di Raptor, il mio cervello sarebbe corso, con molta probabilità, al film di Steven Spielberg Jurassic Park (scegliete voi quali fra i tre preferite). Quei gruppetti di Raptor, per essere esatti di Velociraptor, organizzati, onnipresenti, sempre affamati e temutissimi, ancora spuntano nei miei incubi notturni da insonne nevrotico. Sono pronti a banchettare con le mie malandate budella, mentre un gruppetto di miei amici, con tanto di palette, dà loro un voto (per garantire un clima pre-olimpico), ostentando noia e garantendomi così sobbalzi mattutini che renderanno vani gli sforzi per ricongiungermi all’odiato e amato sonno ristoratore.
Insomma, un articolatissimo “imaginarium” spazzato via in poco più di duecento pagine da Carola Susani e dal suo ultimo romanzo Eravamo bambini abbastanza (collana nichel di minimum fax). Qui il Raptor è un uomo come tanti. Magro, taciturno, sempre crucciato, pensieroso, in alcuni momenti misterioso e per questo attraente, almeno per i “suoi” bambini. Suoi, perché di sua proprietà. Rapiti, addestrati, picchiati e sfruttati dal Raptor per garantirsi un branco, da guidare e terrorizzare. Manuel, Alex, Dragan, Tania, Leonid, Filip, Catardzina e Ana, diversi per età, sesso, nazionalità, carattere, sensibilità, ma accomunati, tutti, da un attaccamento viscerale per il loro Raptor, da cui tenteranno anche di scappare nel corso della storia che Carola Susani ci presenta, ma mai con la reale volontà di farcela. Ed è qui uno dei punti chiave del romanzo, che assomiglia spesso a una complessa alchimia di brevi racconti che si sovrappongono e si fondono per portare il lettore nelle sue più profonde paure, nell’affrontare uno dei timori atavici di un genitore (il rapimento di un figlio), facendogli scoprire che non soltanto un bambino è in grado di sopravvivere anche da solo, ma che potrebbe adattarsi a tal punto al suo nuovo vissuto, da non desiderare più di tornare a casa, da non tentare di scappare in ogni momento, con ogni fibra del suo essere.
Non si può smettere di leggere questo libro e non si può leggerlo in un flusso unico, perché troppo intenso. Le storie dei suoi protagonisti sono così vivide e immediate da farci sentire l’odore dei loro pensieri, anche a distanza. Sono sufficienti pochi scambi fra Manuel e Alex o fra Ana e Filip a farci sedere in circolo in mezzo a loro, mentre Alex inizia a raccontare una delle sue storie che trasformano i personaggi di questo romanzo in altrettanti osservatori di storie altrui. E se proseguendo la storia e avvicinandoci sempre di più al punto di vista del narratore (Manuel, l’ultimo a essere stato rapito e unito al branco del Raptor) rabbrividiamo davanti ad alcuni particolari della loro vita, serviti dall’autrice con la naturalezza apparente che userebbe un dodicenne per descrivere la morte di un compagno, la paura e la certezza di essere picchiato, la fame che ti buca lo stomaco o la felicità che si può nascondere in un maglione infeltrito, sappiamo che quella storia è già entrata nel profondo del nostro essere e ci tormenterà e questo non può che essere un bene. Ogni capitolo di Eravamo bambini abbastanza sembra concludersi con una domanda che l’autrice propone al lettore: Cosa pensano davvero i nostri figli? Fino a che punto pensiamo di conoscerli? Quanto sono forti? O meglio sono più forti di noi? E se sì, quanto questa nuova possibile consapevolezza ci spaventa?Domande, domande, domande. Ecco quello che ho trovato nel nuovo romanzo di Carola Susani. Taglienti, dirette, disarmanti, come quelle che solo un bambino osa porre, perché è convinto che l’interlocutore possa custodire in sé una risposta appena passabile, capace di metterlo al riparo dal fallimento, dalla mancata conferma delle aspettative che qualcuno ha riposto in lui, mentre ciò che conta spesso è solo condividere lo smarrimento e iniziare a sbagliare. «Sapevo che l’urina si sarebbe raffreddata, sapevo che Catardzina aveva fatto un guaio a farci salire tutti sullo stesso pullman, ai Lidi dovevamo andarci separati, a piedi: è vero, quel giorno sapevamo solo sbagliare, ma avevamo bisogno di stare insieme.»
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