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Esercito, il viatico della paura

Creato il 16 maggio 2012 da Albertocapece

Esercito, il viatico della pauraLicia Satirico per il Simplicissimus

Tra pochi giorni saranno vent’anni dalla strage di Capaci: un evento devastante che ha cambiato per sempre la percezione della gravità del fenomeno mafioso. L’immagine più nitida di quei giorni è quella di Paolo Borsellino, lo sguardo buio e consapevole, sulla bara di Giovanni Falcone: una premonizione lucida, rassegnata del destino incombente in via D’Amelio appena poche settimane dopo. Non sappiamo – forse non lo sapremo mai – se Borsellino potesse essere salvato o se la sua fine fosse già stata decisa nell’ambito di una trattativa Stato-mafia ancora in corso di accertamento processuale.
Sappiamo però ciò che venne dopo. Salvo Andò, ministro della difesa del tempo, inviò l’esercito a salvare gli isolani nell’ambito dell’operazione “Vespri siciliani”: gli obiettivi a rischio furono tutelati postumi, mentre Cosa Nostra si riorganizzava per colpire a Roma e a Firenze con messaggi ancora più sinistri. L’esercito di ragazzini storditi dal caldo torrido, inviati a presidiare un territorio immobile come l’aria di quell’estate terribile, non era servito a nulla, ma tutti ne parlavano e si sentivano rassicurati.
La tendenza a utilizzare l’esercito come deus ex machina delle emergenze si è, da quel momento, radicata con pervicacia tra i nostri politici: Berlusconi ha inviato i militari a combattere il Generale Monnezza, mentre la Cancellieri annuncia l’arrivo delle forze armate contro la minaccia terroristica, prefigurando nuovi anni di piombo.

L’uso compulsivo dell’esercito presuppone una frettolosa identificazione del nemico da combattere e dei metodi per combatterlo: la zona delle operazioni viene controllata come se l’aggressore fosse visibile, come se il boss mafioso si presentasse con le pistole in fondina per seminare il panico nelle pubbliche vie, come se i sacchetti della spazzatura si generassero malvagiamente per allignare sotto gli occhi di tutti, come se il terrore fosse cosa tangibile e contingentabile.
La Cancellieri si spinge oltre ogni immaginazione, identificando – di sua iniziativa – gli obiettivi da proteggere nei bersagli nevralgici di disagio sociale: le sedi di Equitalia, di Ansaldo, di Finmeccanica, i politici e i manager non graditi alla mano anarchica che, in modo attendibile (sempre secondo Cancellieri), avrebbe riarmato la lotta terroristica nel nostro Paese. Su tutto spicca l’ansiosa attenzione del ministro dell’interno alla Tav, “madre di tutte le preoccupazioni”. Qui, dopo l’indignazione comprensibile dei no-Tav, parte la consueta boutade della smentita e del fraintendimento di frasi e intenzioni.
Con l’esercito per strada si torna a quell’euristica della paura ritenuta da Hans Jonas elemento fondante dell’etica della responsabilità. Solo che quella promossa dal nostro ministro dell’interno è, semmai, un’etica dell’irresponsabilità, che in modo ingenuo o malizioso diagnostica precipitosamente il male e la cura. Non abbiamo ancora compreso l’entità della minaccia e già sappiamo chi debba essere colpito e chi protetto, chi sia il potenziale sovversivo e chi la vittima designata.

È una sicurezza strana, cui noi italiani non siamo abituati. Non sappiamo ancora nulla di tante cose: non sappiamo nulla di piazza Fontana, di Piazza della Loggia, dell’Italicus, delle stragi senza colpevoli e dei colpevoli senza prove. A vent’anni di distanza, non sappiamo ancora quasi nulla delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Sappiamo ben poco del nostro passato: troppo poco per capire il presente, identificare i nemici veri e trovare il modo giusto di combatterli. Ma l’esercito, buono per tutte le stagioni, è pronto a scendere in campo.
“Abbiamo già le idee chiare”, dichiara la Cancellieri. Chissà cosa sarebbe accaduto se le avesse avute ancora oscure.


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