È un fatto. Alessandro Bertoldi, il coordinatore non ancora ventenne del Pdl locale, sta diventando rapidamente famoso. Negli ultimi giorni si sono occupati di lui quotidiani di rilievo nazionale (Corriere della Sera, Huffington Post) e persino internazionale (la Bild Zeitung gli ha dedicato un trafiletto nel quale è stato definito in modo sprezzante «clown di seconda generazione»). Il succo di tale attenzione non è difficile da spremere: caspita, il ragazzo diffonde un mucchio di corbellerie ogni volta gli viene in mente di emettere un comunicato stampa o di pubblicare uno status su facebook, dunque merita di essere preso un po’ in giro. Un fenomeno buono per cavarci qualche titolo divertente.
Si tratta di un’analisi fin troppo scontata. Se ci limitassimo a un simile giudizio, non indagando cioè il contesto che lo ha reso possibile, non individueremmo una porzione più consistente di verità. Non si tratta ovviamente di scusare Bertoldi per quel che va dicendo e facendo — è perfettamente legittimo, anzi doveroso richiamarlo alla responsabilità delle sue azioni — tuttavia è anche indispensabile allargare il cerchio dei «colpevoli» al contesto del quale egli, in definitiva, non è che l’ultimo rappresentante.
Intanto, se Bertoldi riesce a fare tanto rumore significa che qualcuno lo ha messo nella condizione di essere reso udibile. Scegliere di nominarlo coordinatore di un partito è stato un atto di supponenza politica, a malapena spiegabile con la tesi secondo la quale «anche una capra, candidata sotto il simbolo di Berlusconi, verrebbe eletta». Si è trattato inoltre di un danno non indifferente, in primo luogo nei confronti del soggetto che in teoria si voleva favorire; un modo per non farlo crescere, per stroncargli la carriera che si pensava aprirgli.
Alessandro Bertoldi è un ragazzo sveglio e simpatico, non molto diverso da molti suoi coetanei. Ciò di cui ora ha bisogno è prendere il diploma e frequentare maggiormente persone che, volendo davvero il suo bene, lo dissuadano dal cercare di diventare in quattro e quattr’otto un leader politico. Con la fretta non si raggiunge alcun obiettivo, neppure i meno ambiziosi. La politica — quella seria, quella che merita di essere praticata — ha bisogno di lavoro umile e di un confronto approfondito con i problemi che intenderebbe affrontare. A ben pensarci, è una regola della vita. Perché non ci si improvvisa dirigenti e non basta farsi notare per considerarsi davvero arrivato.
Corriere dell’Alto Adige, 7 giugno 2013