Paróli
A campémm sparagnénd.
I dói che al tartaréughi
a l chèmpa una màsa perché li n zcòr.
Paróli nóvi, paróli antóighi
ch’a gli à fat la rózzna
m’al grèdi di cunsinèri.
(Parole. Viviamo risparmiando./ Dicono che le tartarughe/ campano molto perché non parlano./ Parole nuove, parole antiche/ che hanno fatto la ruggine/ alle grate dei confessionali.)
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Amòur
Fa còunt e’ Vajònt
una muntàgna ch’la va zò tl’àqua.
L’amòur l’è un’invarnèda
ch’la giàza al tubadéuri
una diga
senza gnénca un rubinèt.
(Amore. Immagina il Vajont/ una montagna che frana nell’acqua./ L’amore è un inverno che gela le tubature/ una diga senza nemmeno un rubinetto.)
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La sudisfaziòun
Ta m dé la sudisfaziòun
d’una puràza svóita.
(La soddisfazione. Mi dai la soddisfazione/ di una vongola vuota.)
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Cumè la léuna
Ta n pu dmandè
d’andè dalòngh da te.
Euna cumè la léuna
tal nòti ad me u s vòid
una fitina stóila.
(Come luna. Non puoi chiedere/ di andare lontano da te stesso./ Una come la luna/ nelle notti di me si vede/ una fetta sottile.)
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La dóta
I cavéll pulóid i arléus te sòul
cavéll ad ragàza
da imbastói curòid
che la nòna e la ma a l s’aracmànda.
La mi dóta l’è un fas ad spóin.
(La dote. I capelli puliti brillano nel sole/ capelli di ragazza/ da imbastirci corredi/ che la nonna e la mamma si raccomandano./ La mia dote è un fascio di spini.)
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Precipóizi
L’è cumè mudès senza scapè
tó al miséuri m’un dispiasòir.
Sta vóita che par precipóizi
l’à la spònda d’un lèt
o la róiva d’un pensìr.
(Precipizio. E’ come cambiarsi d’abito senza uscire/ prendere le misure a un dispiacere./ Questa vita che per precipizio/ ha la sponda di un letto/ o la riva di un pensiero.)
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Sparguiéd
Dal vólti ta t sint sparguiéd
e t fiuréss t’un fòs.
(Sparso. A volte di senti sparso/ e fiorisci in un fosso.)
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Una zèsta
Lasém a lè
do ch’ a m’avói vést
cumè cla zèsta
s’i ghéffal ad lèna
s’i férr instécch.
(Una cesta. Lasciatemi lì/ dove mi avete vista/ come quella cesta/ coi gomitoli di lana/ coi ferri infilzati.)
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Tacapàn
Cumpàgn di gazótt ch’i dórma in vòul
tacapàn
tl’aria férma d’un armèri.
(Attaccapanni. Simili ad uccelli che dormono in volo/ attaccapanni/ nell’aria ferma di un armadio.)
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Nuvèmbri
L’aria fóina
ch’la vén zò da e’ mòunt
l’è cumè nòiva sòura la tu fàza.
Nuvèmbri ti campsènt
u s radàna.
Al tu pavéuri al càsca
a zantnèra, a mièra
cumè fòi sòura i viél.
A péunt i mi ócc
ti ócc d’un petròs.
(Novembre. L’aria fine/ che scende giù dal monte/ è come neve sopra la tua faccia./ Novembre nei cimiteri si riordina./ Le tue paure fioccano/ a centinaia, a migliaia/ come foglie sopra i viali./ Punto i miei occhi/ negli occhi di un pettirosso.)
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Enca i giraséul
U i è un mumént
che ta n capéss
s’l’è fugh zò a maròina
o téun so in muntàgna
Ènca i giraséul i n sa piò duvò guardè
e i gazótt da nóid
i t’òintra ad chèsa.
(Anche i girasoli. C’è un momento/ in cui non capisci/ se sono fuochi giù al mare/ o tuoni su in montagna./ anche i girasoli non sanno più dove guardare/ e gli uccelli da nido ti entrano in casa.)
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ESSERE TRA LE LINGUE. (3).
Viaggio nell’Italia neodialettale. (Romagna, 2).
ANNALISA TEODORANI, Sòta la guàza, note di lettura di Manuel Cohen, Il Ponte Vecchio, Cesena 2010. (www.il pontevecchio.com).
Da più parti indicata come erede naturale e inattesa di quella poesia neodialettale che a Santarcangelo di Romagna conosce uno dei suoi fulcri novecenteschi, uno tra i più accreditati ‘mille centri’ che Pier Paolo Pasolini aveva con largo anticipo prefigurato, una città che da sola ha visto crescere tra le sue contrade Tonino Guerra, Antonello Baldini, Nino Pedretti, Gianni Fucci, Rina Macrelli e, non ultima, Giuliana Rocchi; Annalisa Teodorani nata a Rimini nel 1978, ha esordito giovanissima nel 1999, con Par senza gnént, Per nulla (introduz. di Gianni Fucci, nota di retrocopertina di Narda Fattori, Ed. Luisè, Rimini), seguito dalla raccolta La chèrta da zugh, La carta da gioco (prefaz. di Andrea Brigliadori, postfaz. di Narda Fattori, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2004) e ora, in uscita, da Sòta la guàza, Sotto la rugiada (con note critiche altre da questa, ndr.), aggiungendo un ulteriore tassello a un percorso appartato e coerente. Nonostante la attuale sia accertata quale epoca postuma, anche l’esperienza della Teodorani conferma la eventualità della lirica che, comunque la si metta, si riproietta ab libitum secondo modalità espressive magari altre, con formularità informali o aggiornate, magari tendenti alla prosa o alla spezzatura prosodico ritmica e sintattica, o con una attenzione ai contesti, eppure rispondenti a istanze o istinti inalienabili e non sommariamente licenziabili. Nei versi della Teodorani, dove l’osservazione si focalizza su dettagli secondari, periferici, quasi fissati a un dato di inermità, dove ci imbattiamo in un mondo eccentrico pullulato di minuscole, apparentemente insignificanti, entità vegetali, animali, umane: arbusti, piccoli volatili, innocue tartarughe, bambini e anziane zie, esistenze in exitu di vecchi, giovani spose fragili come falene; dove gli epifenomeni di un pulsante microcosmo ci dicono la grèzia d’un zèt/ sòta la bròina, la grazia di un germoglio/ sotto la brina, dove tuttavia registriamo, sebbene deprivata di una qualche intenzionalità generazionale, la traccia di una stimmung molto contemporanea nella percezione fisica di un allarme, o nella prefigurazione di minacce e spaesamenti attivi un po’ ovunque: Dal vólti ta t sint sparguiéd/ e t fiuréss t’un fòs, A volte ti senti sperso,/ e fiorisci in un fosso. Un disorientamento che investe di sé per intero un ecosistema: Énca i giraséul insa piò duvò guardè/ e i gazòt da nóid/ i t’òintra ad chèsa, Anche i girasoli/ non sanno dove guardare/ e uccelli di nido/ entrano in casa: la nudità naturalistica delle immagini e del dettato di concretissima ascendenza popolare, che vena di sé la percezione di una religiosità ‘dal basso’, (i capelli mossi di ragazza che fanno della sua testa un cristico ‘fascio di spine’, o i ritratti delle anziane intente a recitare il rosario, o ascoltate nei loro parlottii, parlòz,, sull’uscio di casa) e si riverbera sulla rappresentazione cosale e domestica ( interni e oggetti d’uso: macchina da cucire, stufa a cherosene, cesta di gomitoli di lana, lenzuola ), si carica tuttavia di valenze simboliche, nella tensione analogica che si realizza in un uso parsimonioso di tropi (i vecchi che hanno radici), specie le metafore: la spònda d’un lèt/ o la ròiva d’un pensìr, la sponda di un letto/ o la riva di un pensiero; e nelle similitudini: essere come cla zèsta/ s’i ghéffal ad lèna/ s’i férr instécch, una cesta con gomitoli di lana/ con ferri infilzati, essere una fitina stóila, cumè la léuna, una fetta sottile, come la luna. Un dato di esilità confermato dall’uso rastremato del lessico, ridotto all’essenziale in testi che si risolvono nel volgere di brevissime inarcature versali, in distici, in singoli versi-frase. In una sintassi basica, paratattica, eppure segnata da ellissi e contratture, slogature e slittamenti logici e figurali. La lingua della Teodorani ha radicate origini rurali, registra la varietà parlata nelle contrade extra moenia santarcangiolesi, dove la campagna e la natura sostituiscono le strade e il cemento, dove si incontrano bambini, farfalle e pettirossi, dove il ritmo vitale sembra ancora seguire quello delle stagioni del nascere del sole o della luna. Una fetta sottile, una porzione di mondo da dire, da scrutare: un microcosmo in cui chi scrive è parte consapevole, partecipe di un tutto dove ogni gesto o evento, umano, animale o vegetale, allude e specifica l’appartenenza a un universo sensibile. (Manuel Cohen).
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Nella foto: Cubo di Rubik per ciechi, di Konstantin Datz
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