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Essere tra le lingue #4: Dina Basso, Uccalamma / Bocca dell’anima

Creato il 29 novembre 2010 da Fabry2010

 Essere tra le lingue #4: Dina Basso, Uccalamma / Bocca dell’anima

Viaggio nell’Italia neodialettale (Sicilia, 1).

Dina Basso, Uccalamma / Bocca dell’anima. Prefaz. di Manuel Cohen, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, 2010. (www.levocidellaluna.it)

*

Chiara dorma

e ju

caminu casa casa

mettu a pignata

mi mangiu a’nzalata;

picchì suddu na sira nun mangiu

nun m’arricanusciu,

e ficcarimi cosi di intra

è ll’unica manera

ppì sintiri ca ancora

campu.

Chiara dorme / e io / cammino casa casa / metto la pentola / mi mangio l’insalata; // perchè se una sera non mangio / non mi riconosco, / e ficcarmi cose dentro / è l’unico modo / per sentire che ancora / vivo.

*

suddu ne ‘nsinghi do duluri

ppo’ nasciri ancora cocca cosa,

vulissa ca fussa a mia e a to’

a simenza.

Ma ci vulissa

- n’autra vota

suduri di ittari sutta u suli,

l’acqua ca nun c’è

- e costa cara

e a pacienzia d’aspittari

n’autra astati,

autri misi,

prima di vidiri cca spunta

e cchì putemu ricogghiri,

e suprattuttu

suddu di chistu

sulu

putemu campari

Se nei solchi del dolore/ può nascere ancora qualcosa, / vorrei che fosse la mia e la tua / la semenza.//Ma ci vorrebbe / – un’altra volta / sudore da buttare sotto il sole, / l’acqua che non c’è / – e costa cara / e la pazienza di aspettare / un’altra estate, / altri mesi, / prima di vedere cosa spunta / e cosa possiamo raccogliere, / e soprattutto / se di questo/ soltanto / possiamo vivere.

*

Oggi i picciriddi

comu fussa n’autra soru,

m’anu misu i pedi sutta o nasu

picchì ava dicidiri

quali dei dui

faciva cchiù fetu;

iddi nun sapeunu

ca chiddu era macari

u nostru jocu,

e ca a vint’anni e rutti

ancora rideumu

comu n’avissumu avutu

cincu e menzu.

Uora i nostri testi anu scigliutu

ch’ama stari luntanu,

e cc’ana dittu e pedi

di curriri cchiù ca ponu

-e possibilmente,

senza turnari arretu;

ma macari ch’ava n’annu

ca nunn’i sciariu

nuddu mi leva a convinzioni

ca chiddi ca fetunu cchiossai

erunu i mo pedi

e su ancora i mia,

i mia suli.

Oggi le bambine / come se fossi un’altra sorella / mi hanno messo i piedi sotto al naso / perché dovevo decidere / quali dei due / facesse più puzza; / loro non sapevano / che quello era anche / il nostro gioco, / e che a vent’anni e rotti / ancora ridevamo / come se ne avessimo avuti / cinque e mezzo. // Ora le nostre teste hanno scelto / che dobbiamo stare lontani / e hanno detto ai piedi / di correre più che possono / -e possibilmente, / senza tornare indietro; / ma anche se da un anno / non li odoro / nessuno mi toglie la convinzione / che quelli che fanno più puzza / erano i miei piedi / e sono ancora i miei, / i miei soltanto.

*

Ma matri mi diceva

ca nun m’ava vvestiri di niuru

ca è u culuri de morti,

do luttu,

de’ vecchi.

E ma matri comu sempri

aviva rraggiuni:

u niuru cosi bboni

nunn’ha purtatu mai,

ma iu mu mettu u stissu,

picchì è u culuri di cu ammazza

e macari di cui

u mortu

u chiancia.

Mia madre mi diceva / che non dovevo vestirmi di nero / che è colore dei morti, / del lutto, / dei vecchi. // E mia madre come sempre / aveva ragione: / il nero cose buone / non ne ha portate mai, / ma io me lo metto lo stesso, / perché è il colore di chi ammazza / e pure di chi / il morto / lo piange.

*

Nota di Manuel Cohen.

I testi in siciliano, nella varietà catanese, che il lettore può ora leggere sulle pagine de’ «La terrazza», sono tratti dal libro di esordio di Dina Basso, Uccalamma, Le voci della luna, Sasso Marconi 2010, nela collana diretta da Flavio Santi. A una prima lettura, questi testi sorprendono per la freschezza della voce e della materia, e pure per un dato di apparente, presunta nudità naturalistica: sembrano infatti versi di confessione sincera e tuttaffatto mediata da letterarietà. Ci dicono di un microcosmo domestico, di legami familiari : una lingua basica, la diremmo dunque quella della giovanissima autrice di Scordia, che già vanta il primato della più giovane esordiente in ambito neodialettale, e che nell’adozione della lingua madre si rivolge al lettore e al mondo scrivendo e quasi parlando (se poesia è, all’origine, eminentemente voce dell’oralità) nel modo a lei più congeniale e con la phonè più congrua: con e dalla bocca dell’anima, la locuzione con cui nella sua terra si indica la bocca dello stomaco: un felice traslato, attraverso cui esprimere una modalità di dire, e di essere, che nasce dal centro del corpo, tutto da esso partendo, tutto ad esso riconducendo. La scrittura fisica, come fisica è la acuta percezione delle cose, visiva e olfattiva, tattile e sonora, di questa nuova e già certa voce femminile, o poeta, tende a imporre il primato dell’elemento fisiologico quale sonar e radar sensoriale e emozionale. Dalla breve campionatura che appare su queste pagine, il lettore potrà cogliere alcuni motivi e temi cari all’autrice. Il primo, e con diretto riferimento all’uccalamma, è ravvisabile in Chiara dorma, dove l’atto dell’ingerire cibo si fa emblematico di una modalità d’esperienza introiettiva: come dire che tutto finisce nel corpo, quasi bulimicamente, in quell’epigastrio in cui il rapporto con il mondo assume le coordinate, anche di inquietudine, di bulimia e necessità nutritiva, dove l’attitudine a cibarsi, allude a una richiesta di affetto. Dina Basso scrive con la lingua madre, ma più, direi, con la lingua delle madri, quella dell’interiorità, quella della simenza, semenza di vita e pacienzìa, la pazienza del nascere, vivere, soffrire, aspettare, quella che più nei secoli ha connotato, regolato e relegato l’universo femminile isolano e italiano nel suo complesso. Dina Basso, che studia a Bologna e adotta più di una consapevolezza nella sua scrittura naturale eppure molto avvertita, ragiona con il corpo, con le sue istanze, le sue aspirazioni o richieste. Reagisce con il corpo, con l’uccalamma, che meglio di ogni retorica esprime un mondo di rapporti, di affetti, e di dolori. Sì, perché quella di Dina è una parola che attraversa la vita, e il nero del lutto; lo calza e lo veste, come in Ma matri mi diceva, non per abito o abitudine, ma per ultraesposizione dell’anima, della bocca dell’anima.

I testi di Dina basso e la nota di Manuel Cohen appaiono su «La terrazza», anno 4, n.4, dicembre 2010 (www.edizioninovecento.com).



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