In Italia ci sono due problemi mastodontici che ci trasciniamo da decenni, quasi atavici: il debito pubblico e l’evasione fiscale. Se il primo è da imputare principalmente alla malapolitica, al gozzovigliare a spese dello Stato andato in scena nella Prima Repubblica e alla speculazione nella Seconda, il secondo è tutto da attribuire ai cittadini.
Andiamo con una bella indigestione di numeri. Nel 1981 il Ministro delle Finanze Franco Reviglio quantificava l’evasione in circa 28 mila miliardi di lire (54 miliardi di euro attuali), pari a sette-otto punti di PIL. Trent’anni dopo, l’evasione ammonta tra i 255 e i 275 miliardi euro, tra il 16,3% e il 17,5% del Prodotto Interno Lordo, secondo le stime del presidente Istat Enrico Giovannini. Vuol dire una sottrazione al Fisco di 120 miliardi, stando ai calcoli del direttore dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera. In tre decadi l’infedeltà fiscale si è moltiplicata per cinque.
In questo hobby siamo secondi soltanto alla Grecia e il paragone non è casuale. Un italiano su quattro, vale a dire 15 milioni, dichiara di non fare avere attività finanziarie, titoli di stato, obbligazioni, libretti di risparmio o depositi bancari. L’anno scorso solo 72 mila contribuenti hanno dichiarato un reddito superiore ai 200 mila euro, 9 italiani su 10 dichiarano meno di 35 mila euro l’anno, la metà meno di 15 mila. Il che vorrebbe dire che l’Italia è una paese poverissimo. Ma i dati stridono.
Secondo Bankitalia, il 90% delle famiglie ha quanto meno un conto corrente. I depositi bancari custodiscono 657 miliardi, le attività finanziarie raggiungono 3.600 miliardi. Nel 2010 sono state vendute 206 mila auto di lusso, vale a dire con un prezzo superiore ai 103 mila euro. Possibile con solo meno della metà dei benestanti? Andiamo avanti.
Quarantaduemila barche oltre i dieci metri sono intestate a persone che dichiarano 20 mila euro l’anno. Il 64% degli yacht è intestato a nullatenenti, a prestanome ottantenni o a società di comodo italiane o estere. Dichiarano 1.500 euro al mese lordi anche i 518 italiani che posseggono l’elicottero o l’aereo.
L’Herald Tribune ha detto che l’evasione è il vero sport nazionale, altro che il calcio. Il quadro sociologico racconta che gli uomini evadono più delle donne, i giovani più degli anziani. Le somme maggiori sono al Nord, ma i più furbi al Centro. I campioni sono i lavoratori autonomi e gli imprenditori: dichiarano metà del loro reddito reale, celando 15 mila euro a testa. I proprietari di case, negozi e appartamenti nascondono l’80% delle entrate, 18 mila euro ciascuno.
Se andiamo a vedere gli esercizi, c’è da mettersi le mani nei capelli per quanto va male l’economica, almeno quella nota al fisco. Le discoteche e i locali da ballo dichiarano mediamente meno di 6 mila euro, i centri benessere abbassano l’asticella a 3.200, gli impianti sportivi primeggiano a 1.300. Tutti sul lastrico. Così come poco credibili i 14 mila euro medi dei ristoratori, i 12.500 dei parrucchieri e i 16.300 dei gioiellieri.
Cosa spinge gli italiani a evadere le tasse?
Scontate la cupidigia, il desiderio di accumulare ricchezza e l’eccessiva pressione fiscale, si possono riscontrare altre cause. Innanzitutto la pratica ricorrente dei condoni, che quasi legittima l’evasione. Poi la burocrazia elefantiaca: per aprire un’attività ci vogliono 68 adempimenti e bisogna contattare 19 uffici. Ancora, gli studi di settore: sostanzialmente un patto scellerato tra amministrazione fiscale e lavoratori autonomi che indica la soglia fino alla quale si può evadere. Poi, l’impunità: in Italia non c’è neanche un evasore in carcere. Negli USA le persone che hanno conosciuto il carcere nei primi 7 anni del Millennio sono quasi 12 mila, con una detenzione media di 30 mesi. The last but not the least, gli scudi fiscali. Col primo nel 2001-2003 ritornarono in Italia 70 miliardi, con il secondo, sei anni più tardi, 104 con un dazio ridicolo. Il 66% dei capitali scudati appartiene a cittadini lombardi. Il 58% era conservato nei caveau delle banche svizzere, il rifugio preferito degli evasori nostrani. La fuga ovviamente è già ripartita, in attesa del prossimo scudo. Pare che solo a settembre 13 tonnellate d’oro siano arrivate in Ticino dall’Italia, nell’ultimo anno 340 miliardi di euro hanno lasciato l’Italia verso altre destinazioni. La stima, al ribasso, dei soldi italiani in Svizzera, perpetuata dall’Associazione banche ticininesi, arriva a 130 miliardi. Ma i calcoli ufficiosi raggiungono quota 300 miliardi.
Da questo punto di vista, però, la scadenza per gli evasori è il 2017. Quell’anno entrerà in vigore il single market act che obbligherà le banche svizzere a sganciare il 35% dei capitali depositati da cittadini comunitari e a comunicare ai paesi d’appartenenza i dati fiscali. Anche gli USA si sono mossi, chiedendo i nomi dei cittadini americani con conti superiori ai 50 mila dollari. La Svizzera sta tentando di arginare la fine del segreto fiscale, nonché il nocciolo della sua ricchezza, con accordi con i singoli stati per spaccare il fronte europeo. I negoziati sono andati a buon fine con Regno Unito e Germania che intascheranno due miliari l’anno da subito ma non riceveranno i dati. L’Italia rimane sulla linea guida europea, d’altronde Monti ha contribuito a redigere il trattato.
La prospettiva però è lontana visto che all’Italia servono soldi al più presto e nella maggior quantità possibile. La storia della lotta all’evasione è fatta di pastrocchi e capitomboli, ma soprattutto dell’ostruzione da parte degli interessati e di gran parte della politica.
L’operazione manette agli evasori dell’82 produsse poco oltre all’arresto di Sofia Loren. Flop anche per il redditometro, un questionario spedito ai presunti facoltosi autori di dichiarazioni sproporzionate. Su 76 mila cartelle spedite, 32 ricevettero spiegazioni plausibili, mentre 10 mila dei 12 mila evasori conclamati si salvarono grazie all’accertamento con adesione, un accordo grazie al quale si paga quanto è nelle proprie disponibilità. Si passò al goffo riccometro, definito da più parti come uno strumento da epoca staliniana e un richiamo all’Inquisizione. Il tool più efficace risultò il numero verde per la delazione fiscale ideato dal “Vampiro” Visco che però dopo poco tempo fallì perché si ritenne in maniere bipartisan che non si confaceva denunciare il prossimo.
Il modo oggi utilizzato è l’ISEE. Trascuriamo l’inefficacia della campagna pubblicitaria, ça va sans dire. L’ISEE è l’Indicatore di Situazione Economica Equivalente che fotografa contemporaneamente reddito e patrimonio mobiliare e immobiliare del contribuente singolo o della famiglia. Bisogna presentarlo per ottenere le varie agevolazioni. Un sistema che non è perfetto, infatti è difficile escludere i falsi poveri per via della difficoltà di intercettare il patrimonio mobiliare, ma che è al momento l’arma migliore.
Il Governo ha deciso di potenziarlo cambiando calcolo e campi di applicazione per migliorarne la capacità selettiva. Inoltre, si punta a includere anche le somme esenti da imposizione fiscale, a valorizzare il patrimonio anche all’estero e a costruzione una banca dati delle prestazioni sociali agevolate presso l’INPS. Dal primo gennaio, poi, le banche saranno obbligate a comunicare periodicamente all’anagrafe tributaria le movimentazioni sui conti, ma anche gli stock e lo storico, se richiesto.
Questi sono i primi passi verso una lotta sempre più strenua ma necessariamente da vincere.
Fonte: Corriere, Repubblica.