Pubblicato da Giovanni Nuscis su dicembre 4, 2011
Come non riconoscerci, anche noi, in ascolto della paura/ gli occhi fissi come i cervi /di notte, colpiti dai fari. E non solo nella scoperta della malattia della carne, ma anche – mi sento di aggiungere -in quella dei sentimenti, della memoria, del corpo del pianeta. Scoperte tutte che ci disorientano, che ci lasciano interdetti, sempre e comunque impreparati. In realtà pian piano qualcosa si impara nella malattia: il farmaco l’hai preso come fosse una preghiera; si può giungere anzi ad una sorta di serenità (…Il tuo essere serena/ contrastando la deriva), ad una graduale ripresa dell’orientamento e dell’autocontrollo (Quella stasi dove tutto è controllato). La cura non è però riservata solo alla medicina – che pare anzi più un rituale, un interludio.- ma al lavoro interiore , al recupero di sé (…Solo fuori il tempo è uguale). E nella brevissima nota che chiude la silloge, il poeta sembra autorizzare una speranza, alludere a un comune destino di supernova per ciascuno di noi, come se alla fine ci illuminassimo nella scoperta delle risposte a tutte le domande ultime, sulla vita e sulla morte.
Una poesia vera, china su chi soffre, che racconta e raccomanda pietas e speranza, che crede, in fondo, alle sue capacità di ascolto e di conforto. (Antonio Fiori)
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Fabiano Alborghetti
Supernova
L’Arcolaio, 2011