Magazine Diario personale

Farsi la vita degli altri, ovvero il paternalismo

Da Anacronista
Appunti sparsi, senza la pretesa di dare una definizione esaustiva/giusta di.

1.
E' sempre dietro l'angolo. Chiunque può cadere nella tentazione paternalista. Il termine parla da sé: paternalista è il padre che parla, il padre inteso come morale, come visione normativa di una vita buona. Come super-io, regola, dover-essere, monito, rimprovero, legge e insomma tutta la sfera di quel che è insopportabile nella vita.
Il paternalismo è una faccenda che si colloca come a metà tra privato e pubblico: esattamente come il padre nel suo ruolo simbolico, che è famiglia, privato, da un lato; e prosecuzione del dover-essere culturale, pubblico, dall'altro. Ma una cosa è certa: il paternalismo presuppone che ci si faccia la vita di qualcun altro, ficca il naso "nel privato" degli altri. Presuppone una sorta di arroganza morale basata sulla convinzione di avere il punto di vista migliore sulla vita buona, e presuppone che questo debba interessare il soggetto paternalizzato.
2.Ora, la domanda che mi pongo è questa: è possibile che ci sia un paternalista in ognuno di noi, per esempio ogni qual volta formuliamo i più vari giudizi sulla vita del prossimo?
L'anarchico giudica il borghese integrato, contrapponendogli anche solo negativamenteuna visione della vita buona. L'impegnato giudica l'indifferente. Il tradizionalista giudica il promiscuo, il promiscuo giudica il tradizionalista. Forse c'è del paternalismo in ogni giudizio relativo al modus vivendi del prossimo.Ma secondo me il punto è un altro.
 Non basta avere una visione della vita buona, come si suol dire, una certa morale eccetera, per essere paternalisti. Il paternalista si distingue per un semplice motivo: per la pretesa che ha di avere la visione giusta per te e per il fatto che presume che questo debba interessarti. Il paternalista cioè agisce, vuole produrre effetti su di te: vuole farti cambiare idea sulla tua vita attivamente, tendenzialmente vuole convincerti. Ha in sé un principio tirannico: ti estromette dalla competenza morale nelle decisioni che riguardano te. Cioè non ti riconosce come soggetto morale. Quindi, per avere paternalismo, oltre al giudizio serve l'azione, che potremmo definire come una strana forma di propaganda morale.
3.
La giustificazione ufficiale di ogni paternalismo è: "lo dico per il tuo bene".
Il paternalismo presuppone implicitamente una gerarchia e quindi l'esercizio di un'autorità: io ne so più di te su di te, tu non sei in grado. Cosa c'è dietro questo "ne so più di te"? In base a cosa cioè sarebbe legittimata la gerarchia, implicita in ogni forma di paternalismo?
 Direi che i casi di paternalismo più frequenti sono caratterizzati da un insieme di credenze che ritengono delle gerarchie fondate. Per esempio, la fallacia generazionale. C'è la convinzione che un 60enne sia moralmente più competente di un 20enne: l'età è, per questa credenza, di per sé garanzia di bontà morale. In base a tale credenza, che può essere vera solo giudicando caso per caso (è pieno di 60enni moralmente e intellettualmente inetti, ecc.), una persona più grande di te può invocare la sua esperienza per autoattribuirsi la missione di illuminare la tua vita. Esemplare in tal senso è l'espressione frequentissima "voiggiovani". Esattamente come il padre: sono più grande di te, ne so più di te. Ma il padre, in teoria, sarebbe legittimato dal suo ruolo affettivo/pedagogico*. Ma se già è il padre a paternalizzare la questione non è pacifica; figurarsi se a paternalizzare è chi non è legittimato almeno affettivamente.
4.
Ma ci sono anche forme non strettamente generazionali di paternalismo. C'è il paternalismo ideologico, che nella sua forma attuale abbiamo in varie forme discusso più volte - es. "tornate a lavorare i campi" oppure "i trentenni di oggi sono bamboccioni" ecc.: questi e altri paternalismi apparentemente innocenti sottendono un giudizio di valore funzionale a una precisa visione politica: non metto in campo misure politico-economiche, mi deresponsabilizzo in termini istituzionali, però ti faccio la paternale così se sei disoccupato è colpa tua e quindi io posso continuare a non fare il mio lavoro di ministro, o altro genere di poltronizzazione. Insomma, in questo caso abbiamo un paternalismo autoassolutorio a sfondo ideologico.
5.
C'è anche un paternalismo gratuito, privo di ogni pretesa di legittimazione che non consista nel puro e semplice: "la penso così, secondo me è giusto che tu faccia x o y o che prenda la decisione z o adotti lo stile di vita p, e se è buono per me deve esserlo anche per te. Punto". "E' per il tuo bene" non può mancare mai. In questo caso ogni sforzo argomentativo va, come dire, a farsi benedire, e non ci resta che un profondo imbarazzo antropologico.
In ogni caso abbiamo diverse morali ognuna delle quali, quando paternalizza, pretende di valere per qualcun altro, il quale va per così dire convertito attivamente. Ci si tura le orecchie, si rifiuta di considerare le circostanze che inducono le persone a fare delle scelte, i loro desideri e tutti i presupposti e ci si improvvisa pedagogisti. Ma soprattutto, e qui sta la gerarchia implicita, viene misconosciuta ogni competenza morale al prossimo, il quale, per il paternalista, non è in grado di scegliere consapevolmente solo perché non la pensa come lui. Da non trascurare poi è il tono di rimprovero, la missione di correzione. 6.
Diverso è il caso del consiglio da parte di un amico, o del punto di vista relativo alle tue decisioni da parte di persone che ne verrebbero in qualche modo toccate. Ma anche in quel caso la questione non è pacifica: quando ci si fa la vita degli altri, la cautela non è mai troppa. Prima di parlare della tua vita in vece tua dovrei fare, come dice un detto, almeno cento metri con le tue scarpe. Ma dipende dalle circostanze relazionali e dai differenti gradi di autorizzazione a esprimersi in merito implicite in ogni relazione. Forse quel che distingue il paternalismo da un semplice benevolo consiglio è il tono?
7.
Noto un'assonanza semantica con la parola "moralista". Spesso per moralista si intende proprio paternalista, secondo me: si definisce moralista, in genere, mi sembra, qualcuno che vuole dirti come devi vivere perché giudica cattive le tue scelte e quindi, implicitamente, autorizza se stesso a saperne di più su qualcosa da cui è intrinsecamente estromesso: cioè una vita i cui contorni esistenziali, relazionali, materiali, morali, psicologici eccetera non conosce.
Ma perché, se anche li conoscesse sarebbe autorizzato? Non credo affatto. [A proposito, detto en passant, c'è un bellissimo aforisma di Bertrand Russell sul tema, che ho scoperto grazie a Elisabetta G.: "I moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui"].
Ma c'è una differenza tra il moralista e il paternalista: a una prima occhiata, direi che il moralista non ha la pretesa di dire quello che dice "per il tuo bene", ma solo perché è convinto che la sua morale sia migliore e la tua riprovevole.
8.
Ultimamente ho incontrato sul web un termine: "maternalismo". Sembra che si utilizzi questo termine per riferirsi a donne che vogliono indicare ad altre donne qual è la "vera essenza" della loro "donnità" oppure, in generale, come dovrebbero comportarsi "in quanto donne". Non ho trovato molto sul termine, ma temo che avrà vita nuova e fulgida, come forma paradossalmente reazionaria di femminismo.
9.
La parola paternalismo ha evidentemente una lunga storia: è il padre, e non la madre, il depositario della legge e della morale, colui che è moralmente competente e quindi autorizzato a legiferare per il figlio. La storia a cui rinvia questo termine è cioè tutta una storia intrisa di sessismo, il solito sessismo per cui donna=irrazionalità, natura, emotività, ecc., e uomo=ragione, morale, civiltà, ecc., con tutto il riflesso asimmetrico nella gestione familiare: il pater familias ordina e punisce, la mamma chioccia consola. Siamo a un'idea di famiglia e di educazione che non mi sento di dire che sia di fatto superata, anche se lo vorrei tantissimo.  10.
Rifiutare il paternalismo, ovviamente, non significa non avere una morale o non credere che certe scelte siano migliori di altre. Quel che mi interessava dire è semplicemente che farsi la vita degli altri è sempre problematico.
 Non sono del tutto soddisfatta di queste spiegazioni, ci tornerò in futuro, intanto mettiamola così. * Ma, come dicevo, anche in questo caso la questione non è pacifica. Il padre che fa la paternale è insopportabile, ma prima di tutto può non avere colto le istanze del figlio, la sua specificità, le sue esigenze eccetera, e può risolversi nella pura e semplice figura del padre autoritario ottocentesco (...ottocentesco?). Ma mi rifiuto di argomentare su questo punto, che richiederebbe una riflessione a parte, e lascio che parli Cyndi Lauper con la mirabile scena del papà che rimprovera la figlia, la quale si ribella - dopotutto bonariamente: "girls just wanna have fun" - al ruolo femminile generalmente noto come "bravaragazzacasaechiesa" imposto.
 

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