«Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico» (Bertold Brecht)
Ben rivelando quel senso di inadeguatezza interpretativa e pragmatica che pervade, per ammissione o sotterraneamente, le strutture di movimento italiane, il fenomeno dei “forconi” ha fatto emergere la necessità di confrontarsi con il reale. In questi giorni è in corso un vivo (e vivace) dibattito tra le realtà di movimento che prescinde dalle narrazioni dominanti. E prescinde da esse da entrambi le parti che si sono delineate fin dalle prime analisi, a dispetto di quanto dicano alcuni attori di tale dibattito.
Il dibattito in questione verte sostanzialmente intorno a una domanda vecchia come il cucco: come dovrebbero porsi le forze di sinistra nei confronti di una espressività politica, anche radicale nella prassi, derivante da una composizione sociale non tradizionalmente riconducibile alla sinistra? Come sfruttare le ambivalenze frutto della crisi?
In realtà, la stessa identica domanda era stata formulata a suo tempo da un certo Carlo di Treviri, il cui cognome poco importa, seppure in termini all’apparenza diversi. Nella sua opera Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte egli si dedicò all’analisi della presa del potere da parte del futuro Napoleone III e individuò la base politica di tale potere nel richiamo, cui corrispose una nota risposta, a quella componente sociale che Carlo chiamava “sottoproletariato”. Bonaparte si erige a capo del sottoproletariato, ne è il principe, lo aggrega e lo lambisce con retorica unificatrice, infine prende il potere e instaura una dittatura.
La tendenza di quest’omone barbuto ad attribuire al sottoproletariato la responsabilità di quello che molti in seguito considerarono l’evento anticipatore delle avventure fasciste e autoritarie del secolo successivo fin da subito fece molto discutere. Se alcuni, come un certo Leone di cui neanche importa il cognome, ebbero l’ardire di affermare che «attraverso il fascismo fu il capitalismo in grado di mobilitare masse di piccoli borghesi impazziti e fasce di sottoproletariato impoverito e demoralizzato», altri, per esempio un certo Michele, insistettero sull’importanza di tutto quello spettro sociale che compone ciò che Carlo definiva sottoproletariato e sostennero che non è accettabile escludere dai discorsi e dall’azione politica chi già è escluso di per sé dal punto di vista sociale ed economico.
Perché tutto questo ricapitolare e citare autori privi di cognome?
Forse perché i discorsi di questi giorni riguardano la stessa cosa.
Com’è possibile che ogni volta che qualcuno dice «non vogliamo bandiere» si scopre che ciò che non vuole sono i comunisti? E com’è possibile che quando c’è la bandiera rossa i “forconi” cacciano via dalla piazza chi la porta, mentre quando c’è lo striscione dei fascisti applaudono? Cosa vuol dire accettare chiunque prescindendo dall’appartenenza politica? (Ma non è lo stesso discorso sviscerato per mesi sul M5S?)
Come prendere le dichiarazioni di un portavoce della protesta, Andrea Zunino, secondo cui «è curioso che 5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei» e che un modello da seguire è l’Ungheria nazionalista, reazionaria e autoritaria di Viktor Orbàn («Lui sì che sta liberando davvero il suo Paese»)?
Come rapportarsi con chi dice «a me vanno bene tutti gli italiani, i cittadini che scendono in piazza», ponendo neanche troppo sottilmente discriminanti di nazionalità sulla composizione di piazza, almeno nella retorica e nelle parole d’ordine? E con chi, convinto di essere scevro da condizionamenti ideologici, afferma di comprendere «il disoccupato che si lamenta perché al marocchino arrivato col barcone danno la casa e mille euro mentre lui deve dormire in macchina», noncurante del fatto di stare diffondendo propaganda razzista strumentale?
Chi si appella al “popolo italiano” è di destra, ma anche tanto. E può anche negarlo, prima o poi si scopre. Non esiste un razzismo di sinistra.
Come accogliere le esternazioni aggressive del tipo «Bruciate i libri!»?
C’è chi dice, giustamente, che è troppo semplice liquidare il fenomeno dei “forconi” come movimento sommovimento di destra o addirittura fascista. Vero, ma a chi dice che «non si può fare di tutta l’erba un fascio» bisognerebbe ricordare che lo stesso si poteva dire del fascismo delle origini. Il semplice considerare, in un mondo globalizzato e nel pieno di una crisi neoliberista, il discriminante della nazionalità italiana come elemento unificatore è alquanto sospetto: tutti, ci dicono, facciamo parte dello stesso popolo, il popolo italiano uno e indivisibile, abbandoniamo dunque le differenze. Eppure, provate a sostituire il termine “fascisti” col termine “italiani”: considerare l’annullamento e l’appiattimento delle differenze una grande vittoria è un concetto preoccupante.
Finirà lo spettacolo del fascista liberale, nazionalista, democratico e magari popolare: ci saranno solo dei fascisti. Questa individuazione è un segno di forza e di vita. È una vittoria. Una grande vittoria. Un titolo d’orgoglio. Il fascismo è destinato a rappresentare nella storia della politica italiana una sintesi tra le tesi indistruttibili dell’economia liberale e le nuove forze del mondo operaio. È questa sintesi che può avviare l’Italia alla sua fortuna.
(Mussolini, “Il Popolo d’Italia”, 4 novembre 1921)
Non sono tutti di destra, ma i dispositivi all’interno dei quali agiscono sono già di destra e fascisti in senso lato. Qualcuno dice che siamo di fronte al rifiuto di ogni forma di rappresentanza e quindi non esiste alcun dispositivo gerarchico o accentratore. Tuttavia, il fatto che non ci sia un dispositivo per sé non vuol dire che non ce ne sia uno in sé: il più delle volte non abbiamo a che fare con strutture organizzate, ma delle strutture che pretendono di esprimere una qualche forma di rappresentanza di questa composizione si sono già affacciate, perché la sete dell’uomo forte unificatore e della figura totalizzante è una tentazione facile da realizzare. Dice Wu Ming (in un altro contesto, non sui forconi):
Il più grave problema di questo Paese, storicamente, è l’ignavia della piccola borghesia, che è la più becera d’Europa e oscilla perennemente tra l’indifferenza a tutto e la disponibilità a qualunque avventura autoritaria. Avventura «vicaria», naturalmente, vissuta per interposto Duce che sbraita. Giusto un brivido ogni tanto, per interrompere il tran tran, godersi l’endorfina e tornare al proprio posto.
E questi sono gli orizzonti politici di Mariano Ferro, leader siciliano del Movimento dei forconi, che così ha risposto a chi chiedeva perché non si stessero organizzando per manifestare a Roma:
Bisogna vivere qualche altro giorno di passione e far salire l’adrenalina degli italiani.
C’è un “coordinamento nazionale” rappresentato da persone del calibro di Danilo Calvani, ex Lega Nord, che usa il “noi” esclusivo per rassicurare sulla disponibilità di fior di quattrini, a quanto pare, per pagare i treni per la marcia su Roma.
Il dispositivo che guida e imbriglia i forconi, anche se non riconosciuto magari dalla maggioranza di coloro che hanno deciso di prendervi parte, è stato storicamente sperimentato a più riprese ogni qual volta se ne sia presentata la necessità. E si tratta di un dispositivo reazionario, che neutralizza il conflitto anziché portare la sua espressione verso un avanzamento.
Disponibili a cacciare il governo con mazze e pietre, previo consenso degli enti.
A chi fa affidamento sulle “ambivalenze” nella lettura degli eventi questi giorni e dell’espressione di dissenso e malcontento popolare, occorre ricordare che circa un anno fa c’era anche qualcuno che parlava di “proficue ambivalenze del M5S” e si è visto quanto aveva ragione.
Infatti, se si volge lo sguardo alla lettura che ne viene data, si riconosce una narrazione che non aumenta il livello di conflitto, ma lo neutralizza. Ciò non accade solo ad opera della narrazione dominante propagandata da media mainstream, che dopo aver definito per alcuni giorni fascisti tout court i soggetti protagonisti di questi eventi sono passati ad accusare l’area antagonista per ravvivare la sempreverde criminalizzazione dei movimenti sociali: il discorso delle ambivalenze da sfruttare per spostarle a sinistra viene utilizzato paradossalmente per attaccare la sinistra (identificandola, eventualmente, con Renzi, e questo la dice lunga).
Sparsamente, vengono prodotte analisi di movimento che affermano, riferendosi al concetto di “sinistra”, che «quella storia, piaccia o non piaccia, è finita» ed esprimono la necessità di «farla finita con l’idea di sinistra». Se sperano, così facendo, di spostare i forconi a sinistra, hanno già fallito in partenza. Perché, per farlo e nel farlo, hanno rinunciato a questa scomoda idea di “sinistra”.
Questi che parlano di sporcarsi le mani, di parlare un linguaggio comprensibile, di riuscire a riconquistarsi l’appoggio degli sfruttati e dei proletarizzati, di ricostruire partendo dal reale la coscienza di classe degli stessi, sono gli stessi che hanno scelto di impostare un evento che poteva essere particolarmente proficuo sulle parole d’ordine “assedio” e “sollevazione”, marginalizzando dal movimento reale quella variegata composizione di classe di cui si sta parlando, la quale è totalmente sorda se non allergica a quel genere di retorica.
Questa, diranno, è la realtà con cui ci dobbiamo confrontare. Non è perfetta perché niente può esserlo. Già quasi due anni fa, in calce a queste brevi considerazioni sul neonato “Movimento dei forconi”, un commentatore faceva notare: «Ok, i fascisti. Ok. Ma se fossimo vissuti in Francia nel 1789, come avremmo commentato?». Ma presìdi che minacciano, hanno dubbi legami con neofascisti e mafia, si lasciano trasportare dal primo capetto che passa, diffondono falsità razziste, alimentano il frame della casta, urlano “bruciamo i libri”, aggrediscono chi fa domande, assaltano le camere del lavoro, insultano gli operai in sciopero, sono affascinati dall’idea di una giunta militare… vogliamo chiamarli semplicemente “non perfetti”? Insomma, ci vuole tanto a riconoscerli?
Sono quelle stesse masse che acclamarono Luigi Bonaparte, che accordarono consenso alle derive autoritarie degli anni Venti, che costituirono la base sociale della reazione. Inconsapevolmente, se vogliamo. Magari non fascismo per sé, ma comunque fascismo in sé.